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Rosario Pesce
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La morte di uno zio è un trauma, forse, secondo solo a quello della morte di un genitore o di un fratello, tanto più quando una famiglia è cresciuta e si è formata in medesimi luoghi.
La morte di mio zio Antonio, tragica in sé per il modo come si è consumata, rappresenta un vulnus non solo per i familiari, ma per una intera comunità di artisti, intellettuali, persone impegnate nella dimensione sociale, che hanno condiviso con lui gli spazi della formazione culturale e politica.
La morte di un artista, come diceva Pasolini, costituisce per una comunità un momento di riflessione e di catarsi, in occasione del quale si può ragionare non solo su cosa ha fatto il defunto in vita, ma in particolare si può ipotizzare uno scenario, un esito del lavoro di quella persona.
Quando, poi, come nel caso di Antonio Pesce, l’artista si coniugava con una natura profondamente schiva e distante dai clamori, a maggior ragione si può apprezzare le virtù di chi è stato un punto di riferimento per molti, sia in termini affettivi, che umani.
Oggi, la famiglia, il Comune, la comunità degli artisti sono più poveri, perché, con la dipartita di mio zio, si è persa una persona, ancora, in grado di sognare e di fantasticare, con i suoi strumenti unici, quali i colori ad olio e la tecnica delle incisioni.
Ma, va via appunto una persona, prima ancora che un pittore formatosi all’Accademia negli anni del Dopoguerra; va via un individuo, che ha sempre fatto della moderazione e della diplomazia i suoi strumenti essenziali, visto che questi erano i tratti della sua psiche, costruitasi attraverso i drammi familiari.
Egli la sua forza la conservava per le tele, sulle quali il colore veniva sparso in modo copioso, sempre secondo una raffinata logica compositiva e secondo una fantasia, che ha conservato intatta fino all’ultimo respiro.
Capace di essere sia figurativo, che astrattista, la sua pittura è la migliore immagine di un uomo che la rivoluzione l’ha compiuta attraverso l’arte.
Tagli, giochi di ombra, densità cromatiche sono la quinta essenza di un pittore, che ha vissuto nel suo ritiro sanseverinese, visto che, per motivi familiari, ha rinunciato a vivere nelle grandi città, dove le sue opere erano richieste e commercializzate.
Anche la sua morte ha riprodotto la fenomenologia del silenzio, che lo ha sempre caratterizzato: in sordina, se n’è andato, senza chiedere nulla a nessuno.
Oggi, il nipote è molto più povero di prima, visto che, con la perdita dello zio, è andato via un punto di riferimento premuroso ed affettuoso, tanto più perché sempre vicino ai giovani in generale, di cui era il principale motivatore.
Come ha detto un amico, sembrava che non dovesse mai andare via, perché di queste persone l’umanità ha un bisogno forte e continuo, quasi viscerale, tanto più in un momento storico nel quale prevalgono atteggiamenti, a volte, vili e sguaiati.
Sei l’essenza della vita che continuerà attraverso il ricordo delle tue parole, del tuo insegnamento e dei tuoi quadri.
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