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lunedì, 05 gennaio 2015 16:57 |
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Rosario Pesce
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Il dibattito, interno al Partito Democratico, dopo le accuse lanciate da D’Alema contro il Segretario Nazionale, nonché Premier, sta entrando nel momento più importante, perché, come era facilmente ipotizzabile, le parole dell’ex-Presidente del Consiglio hanno dato la stura ad una serie di interventi, da cui si può dedurre il posizionamento delle varie correnti in quella che sta diventando, sempre più, una conta pre-congressuale.
È pleonastico sottolineare che la stragrande maggioranza dei gruppi dirigenti del partito è schierata con Renzi, per cui sulle posizioni di D’Alema, finora, si sono identificati Bersani, che già aveva offerto segnali di insofferenza, e naturalmente la CGIL, che, pur non partecipando direttamente al dibattito, essendo una forza sindacale manifestamente schierata contro l’Esecutivo, non può non simpatizzare con quanti dall’interno del partito criticano, anche aspramente, il Presidente del Consiglio.
È evidente che Renzi abbia, dalla sua parte, due elementi di vantaggio indubbio rispetto al proprio interlocutore: innanzitutto, il dato generazionale, per cui, mentre D’Alema appare come il passato, il Premier incarna il presente ed il futuro del PD, visti i suoi quarant’anni, che gli consentono di poter ambire ad un ruolo di primissima importanza, almeno, per un ventennio.
Inoltre, D’Alema soffre il grave disagio del dato elettorale, che, ai tempi della sua Segreteria e del Premierato, non lo ha mai premiato così ampiamente, come invece è successo con Renzi in occasione delle elezioni europee dello scorso mese di maggio.
Se il dato anagrafico è incontrovertibile, quello elettorale è largamente modificabile: infatti, il risultato della scorsa primavera appare oggi già ingiallito, perché le ultime decisioni del Governo, in materia di mancato rinnovo contrattuale per i dipendenti della P.A. e di riforma della Scuola pubblica, creeranno dei dissensi, già in parte emersi, che si evidenzieranno ancora di più nel corso dei prossimi mesi, quando la dialettica fra il Governo ed i sindacati sarà molto più accentuata ed aspra.
Infatti, immaginare che il PD abbia, tuttora, il consenso del 41% degli Italiani sembra una chimera, anche per chi maggiormente tiene alle sorti di quel partito, ma invero Renzi non ha alternative nel Paese, perché Berlusconi e Grillo, sia pure per motivazioni diverse, non sembrano in grado di riconquistare il consenso, che consentirebbe loro di recuperare le posizioni elettorali perse rispetto al leader democratico.
Pertanto, Renzi non è destinato a cadere né domani, né nell’immediato futuro: è ovvio che l’assenza di un’autentica alternativa lo renda forte, pur avendo perso molto dello smalto che aveva inizialmente, perché - inevitabilmente - misurarsi con i problemi degli Italiani determina l’erosione di consenso, dato che le scelte politiche obbligano a privilegiare alcuni interessi sociali, piuttosto che altri.
D’Alema, però, pone una questione serissima per il futuro del PD: la trasformazione di un partito di massa nel partito del leader costituisce un pericolo serissimo per la tradizione riformista del nostro Paese, perché è facilmente ipotizzabile che, quando Renzi cadrà in disgrazia, quel partito, ridotto alla condizione di mero cartello elettorale, possa implodere e scomparire, come è successo già alla DC o al PSI, anche se per motivi non solo di natura strettamente politica.
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Quindi, è giusto l’appello che D’Alema fa per la composizione della Segreteria, affinché non sia formata solo di renziani d.o.c., così come appare legittima la richiesta - che avanza - di un rilancio autentico dell’azione del partito e del Governo, ben al di là della sovraesposizione mediatica da parte di Renzi, perché chiaramente le prossime elezioni non dovranno divenire una semplice conta delle simpatie, che può suscitare un Premier, che ha il senso della battuta perspicace e gode del grande privilegio di aver narcotizzato tutti gli avversari, interni ed esterni, inibiti dalle evidenti difficoltà che essi avevano accusato in passato, quando hanno occupato il suo stesso posto.
In particolare, è necessario che il Partito Democratico prenda posizione nella dinamica sociale, che si sta sviluppando: è evidente che lo scontro frontale con i sindacati confederali non porterà Renzi da nessuna parte, ma, perché egli lo capisca, è opportuno che nel partito pure ci sia qualcuno che ragioni con la testa propria e non con quella del leader, che altrimenti non capirà mai dove sta sbagliando.
Negare il rinnovo contrattuale ai lavoratori della Pubblica Amministrazione non è, invero, una scelta in linea con gli orientamenti di un Governo retto da una forza riformista, di ispirazione socialdemocratica.
Infatti, si tratta di un diritto acquisito da migliaia di lavoratori, i cui stipendi sono bloccati da anni e per molto altro tempo, purtroppo, rimarranno fermi.
D’altronde, se si vuole che l’Italiano medio torni a spendere, è pur necessario che qualcosina in più in busta paga egli trovi a fine mese; pertanto, sarebbe giusto che questi concetti vengano fatti propri dalla dirigenza del PD, che dovrebbe poi avere la capacità e la pazienza di spiegarli al Segretario Nazionale, se si vuole evitare che un Esecutivo di Centro-Sinistra faccia ciò che, in altre occasioni, le piazze ed i sindacati non hanno consentito, neanche, ai Governi moderati guidati dal Centro-Destra.
D’altronde, le contraddizioni sono numerose: ad esempio, come si può immaginare di assumere centocinquantamila nuovi insegnanti (che sono, pur sempre, dipendenti pubblici), se manca il denaro sufficiente per rinnovare il contratto a chi è, già, nei ruoli dello Stato? Naturalmente, sono, questi, aspetti su cui è legittimo che si levino voci autorevoli all’interno del PD, diverse da quelle dell’entourage strettamente renziano, che, suo malgrado, può spingere il proprio leader ad assumere posizioni politiche sbagliate, convincendosi – a torto – che siano, invece, corrette.
È triste, però, che sia stato necessario l’intervento di D’Alema per agitare le acque e far prendere coscienza che, in assenza di dibattito, il PD rischia di divenire il cartello elettorale del Presidente del Consiglio, cosa che non giova né al partito, né al suo leader pro-tempore.
Ci saremmo aspettati, ad opera dei dirigenti della stessa generazione di Renzi, posizioni più coraggiose, con la critica legittima del Premier, quando - come in questo caso - è prossimo, ormai, a portare il Governo allo scontro sociale con i sindacati e con centinaia di migliaia di Italiani.
Invece, abbiamo percepito il silenzio assoluto, in cui è emersa, solo, la voce di un ex-leader, certamente non più giovanissimo e, forse, astioso verso Renzi per aspirazioni personali non soddisfatte, ma invero, tuttora, lucido per capire che, incamminandosi su un sentiero siffatto, sia il Governo, che il partito rischiano di farsi male per davvero.
Forse, è giunto il momento che un quarantenne, desideroso di crescere, faccia proprie le contestazioni dalemiane e si ponga come autentico alter-ego di Renzi e del renzismo più acritico?
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