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Rosario Pesce
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Quarant’uno anni fa veniva trucidato Pier Paolo Pasolini, l’autore del Novecento italiano più controcorrente che la letteratura, il cinema, il teatro, il giornalismo, la televisione abbiano conosciuto.
La sua morte, avvenuta non per mano di un adolescente, che cercava di adescare, ma ordinata da poteri molto forti dell’epoca, rappresentò uno spartiacque nell’Italia della metà degli anni Settanta, che cercava a fatica di uscire dal Terrorismo e che avrebbe conosciuto, invece, altre stragi ancora.
Pasolini, il giornalista degli Scritti Corsari, il regista di film censurati, l’opinionista noto per le sue tesi antitetiche rispetto alla vulgata comune, morì quindi perché qualcuno ne ordinò l’omicidio, visto che egli difficilmente entrava, con le sue idee, entro uno schema preordinato.
Espulso dal Partito Comunista a causa della sua conclamata omosessualità, fu l’intellettuale che, meglio di altri, mise in evidenza i mali della società di massa, che stava costruendo i miti di ricchezza e di opulenza su di un massacro sistematico, quello della civiltà contadina, che lo stesso Pasolini aveva conosciuto ai tempi della sua permanenza in Friuli e che vedeva riflesso nelle borgate romane, così manifestamente diverse rispetto ai quartieri proletari di Milano o di Torino.
Purtroppo, il dar voce a quell’umanità, dimenticata da molti, in primis dagli stessi partiti politici della Sinistra, è costato caro al poeta friulano, che, per anni, fu condannato alla “damnatio memoriae” dalla critica militante del PCI, che lo accusava di disdegnare il mondo operaio e la sua organizzazione.
Pasolini, invece, con l’intuito del poeta, che è secondo solo a quello di Dio, aveva percepito che la società dei consumi, alla maniera di Crono nel mito greco, stava divorando voracemente i suoi figli, per cui progressivamente il consumismo sarebbe divenuto un (non-)valore in sé, contro qualsiasi logica sia di tipo spiritualista, che finanche materialista, dal momento che mai sarebbe arrivato al potere quel proletariato, che era al centro dell’epopea comunista.
Uno scrittore, dunque, eterodosso: snobbato per la sua sessualità contro-natura; per molto tempo considerato solo l’autore di film lascivi, che mai sarebbero stati trasmessi dalla televisione di Stato, l’unica che, in quel momento storico, avrebbe potuto offrire l’opportuno canale di divulgazione ai prodotti della sua arte.
Eppure, i personaggi pasoliniani sono divenuti eterni, per cui oggi ricordiamo ancora i visi di Sergio Citti o quelli degli altri ragazzi di strada, tipici dei film di Pasolini: volti neorealistici, che però avevano in sé una forza narrativa ben più intensa di quella propria degli attori di De Sica o Rossellini.
Forse, il mito della campagna, che lascia spazio ai paesaggi industriali; forse, la forza di un dialetto, che non è mai ingabbiato in formule scolastiche; forse, l’intensità sentimentale di personaggi, che non nascondono mai la propria natura ambigua: tutti questi sono fattori che rendono uniche le creature pasoliniane, che continuano a vivere, nonostante siano passati quarant’anni e nonostante, come predisse il vate di Casarsa, la società post-industriale abbia fatto strame di tutto ciò che ha avuto il contrassegno del XX secolo.
Pasolini, come profetizzò Moravia ai suoi funerali, non è mai morto: è divenuto, suo malgrado, il simbolo dell’intellettuale “contro” e questa connotazione, tuttora, lo rende immortale.
A lui va il nostro omaggio, perché, se oggi le élite della società italiana hanno, almeno, consapevolezza critica di cosa sia stato il Novecento italiano, ciò lo si deve unicamente a quell’artista trucidato il 2 novembre 1975.
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