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Rosario Pesce
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Ormai, un dato è evidente: il Covid procede a doppia velocità, molto lentamente al Sud, dove pare essersi spento, ed in modo più diffuso ed ampio al Nord, dove i contagi tendono a salire.
È ovvio che le tendenze devono essere studiate in un arco temporale diverso da quello di qualche giorno, per cui solo a fine giugno sapremo se questi trend si andranno a consolidare ovvero si verificherà un ulteriore cambiamento.
Certo è che il Nord ed il Sud sono stati interessati, in modo diverso, dal contagio sin dagli inizi: il virus al di sotto del Garigliano è stato ben più generoso, per cui i contagi ed i decessi non hanno acquisito le dimensioni drammatiche del Nord, in particolare della Lombardia e del Piemonte, che pure palesano un aumento dei contagi dopo la fine della quarantena.
Ed, allora, il quesito sorge spontaneo: era proprio necessario riaprire le regioni dopo il 3 giugno, causando così un possibile ampliamento dei contagi, anche, in quei territori che, al momento, sembrano meno martoriati dal virus?
È ovvio che le esigenze economiche impongono la riapertura dei territori, ma è altrettanto evidente che, se nel prossimo mese, l’infezione dovesse riprendere a crescere nelle aree meridionali, la scelta si dimostrerebbe fallace e molto pericolosa.
Peraltro, colpisce molto il fatto che gli esponenti del mondo delle scienze e della medicina palesano posizioni, nei dibattiti televisivi, molto diverse le une dalle altre: è mai possibile che, contemporaneamente, autorevoli medici dicono che il virus è morto, mentre altri loro colleghi sono molto più prudenti?
Una simile distonia non può aiutare gli Italiani nella ripresa: poter prevedere l’andamento dell’infezione in modo credibile significa avere maggiore consapevolezza nel mettere in piedi le azioni necessarie per la prevenzione e la tutela della salute di noi tutti.
Ed, allora, perché tanti pareri così discordanti fra loro, che invero non aiutano la politica nel prendere le decisioni necessarie?
Questa incertezza non fa bene, in particolare, all’immagine del Paese: assistere a dibattiti dove insigni cattedratici esprimono previsioni - nettamente - differenti le une dalle altre in merito all’andamento possibile del Covid, trasmette molta insicurezza ed indecisione in una pubblica opinione che, a sua volta, è già divisa in modo plateale fra chi osserva le norme di igiene in maniera rigorosa e chi, invece, è tornato alla vita pre-Covid, infischiandosene di divieti e prescrizioni.
Forse, è il destino dell’Italia?
Finanche di fronte ad un’emergenza sanitaria, i cui contorni sono tutti da definire, ci si divide fra guelfi e ghibellini, fra chi è prudente fino all’eccesso e chi, ormai, ha messo alle sue spalle tre mesi di morti e di tragedie inenarrabili.
Forse, un atteggiamento più responsabile e consapevole sarebbe necessario, almeno per provare a comprendere il futuro della nostra comunità nazionale, evitando di ripetere gli errori commessi nello scorso mese di febbraio, quando ci si è avvicinati al Covid privi delle opportune informazioni, cadendo così vittime dell’ignoranza prima ancora che dell’effettiva e, comunque, comprovata virulenza dell’agente patogeno.
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