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Rosario Pesce
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Da tempo, è evidente che nel nostro Paese si faccia la differenza fra la vecchia classe dirigente, quella della Prima Repubblica, e la nuova, che ha governato il Paese nel corso della Seconda Repubblica e che, in particolare, ora si affaccia e si propone per il governo in questo delicato passaggio istituzionale.
È ovvio che i grandi esponenti della politica del secondo Novecento, democristiani e comunisti, socialisti e laici, non sono comparabili a molti di quelli che, oggi, affollano lo scenario istituzionale.
Un divario culturale li separa e rende evidente la differenza che esiste fra chi si formava nelle scuole di partito e chi, invece, molto spesso ha una preparazione molto approssimativa e superficiale.
Non è un caso se, lo scorso anno, in occasione della campagna referendaria in materia costituzionale, il confronto televisivo fra Renzi, assertore del Sì, e Ciriaco De Mita, difensore del NO, vide la vittoria del leader irpino, nonostante il Segretario del PD potesse vantare una maggiore familiarità con i tempi della comunicazione.
Ma, si sa che l’intelligenza e la cultura, proprie di chi ha governato il Paese e la Democrazia Cristiana nel corso degli anni Ottanta, sono impareggiabili, per cui, nonostante il salto generazionale, la qualità emerge sempre.
Oggi, la politica ha bisogno, ancora, del contributo di simili personalità, che in alcune circostanze, in particolare, sono state messe troppo rapidamente da parte, perché si è inteso che la Repubblica avesse bisogno di un bagno catartico, per effetto del quale però – come si dice in gergo – è stata gettata l’acqua sporca, ma purtroppo con essa anche l’infante.
In tal senso, la volontà di rottamare un intero ceto dirigente è stata scellerata, perché, in assenza di un opportuno ricambio, sovente i partiti hanno vissuto una condizione di inadeguatezza dei loro vertici apicali, che poi ha prodotto, inesorabilmente, un riverbero negativo sulle istituzioni.
A distanza di qualche anno, non si può che tornare ad ascoltare la lezione degli “antichi”, perché da loro si può e si deve apprendere la lezione di moderazione e di saggezza, che hanno messo in pratica nel momento migliore della loro esperienza amministrativa e di governo, da cui non si può prescindere, a meno che non si voglia reiterare gli errori del recente passato, che hanno condotto l’Italia al dramma odierno.
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