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Rosario Pesce
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È evidente che il nostro sia un sistema istituzionale bloccato, sia per motivi intrinsecamente politici, che per fatti di natura giuridica.
La crisi politica è, ormai, vecchia e più volte l’abbiamo analizzata: da Tangentopoli in poi, il nostro sistema partitico ha subìto un terremoto da cui non si è più ripreso, se è vero che, ciclicamente, nascono nuove formazioni che vanno a sostituire le “vecchie”, che sono vissute l’arco di una stagione, nella migliore delle ipotesi.
A questo dato, se ne aggiunge un altro, non meno inquietante.
Ad ogni legislatura (o quasi), nel corso dell’ultimo ventennio, si è messo mano alla legge elettorale, modificandola più volte, per precipua volontà politica o per interventi della Suprema Corte, che ha cancellato quelle previgenti.
È ovvio che una siffatta dinamica non può che aumentare il caos esistente: ad esempio, il prossimo 4 marzo si andrà al voto con un dispositivo di legge mai sperimentato, che vincola due voti, quello del collegio maggioritario e quello della circoscrizione proporzionale, creando così una liaison che può produrre effetti devastanti.
Potremmo, infatti, la sera del 4 marzo trovarci di fronte a due ipotesi, entrambe non auspicabili: o il dispositivo di voto creerà una maggioranza molto ampia, ben più larga di quella del 40% necessaria per avere un numero congruo di seggi, generando di fatto un effetto iper-maggioritario, sconosciuto al Paese, ovvero all’opposto si verrà a creare una condizione di sostanziale pareggio fra le tre coalizioni o forze principali – PD, Centrodestra e Grillini – a cui bisogna aggiungere la variabile di MDP.
In tal caso, sarebbe necessario dar vita ad un nuovo dicastero di coalizione, che metterebbe insieme forze che hanno fatto la campagna da parti della barricata diverse, se non opposte.
Non è un caso se l’odierno Governo Gentiloni non ha presentato le dimissioni, per cui, dopo lo scioglimento vigente delle Camere, essendo in carica potrà continuare la sua esistenza, anche nel periodo di tempo (breve o lungo?) che trascorrerà fra il voto, l’insediamento dei nuovi parlamentari ed il conferimento dell’incarico ad una personalità, eventualmente, differente dallo stesso Gentiloni.
In tale caso, nessuno di coloro che si presenta, oggi, come candidato alla Presidenza del Consiglio verrebbe insignito, poi, dell’incarico, ma è evidente che sarà necessario reperire una figura che possa mettere d’accordo tutti coloro che convergeranno nella formazione del nuovo Esecutivo ed, in tale prospettiva, è innegabile che il Premier attuale può giocarsi le sue carte per un reincarico non solo possibile, ma fortemente auspicabile in caso di stallo prolungato delle istituzioni dopo il voto del 4 marzo.
Pertanto, Renzi, Berlusconi, Salvini, Di Maio, Grasso giocherebbero una partita limitata alle sole elezioni, ma subito dopo si aprirebbe una nuova fase politica, in occasione della quale molti di loro dovranno concorrere – giocoforza – alla composizione di una maggioranza parlamentare non meno litigiosa ed articolata al suo interno di quelle che hanno governato il Paese nel corso della cosiddetta Seconda Repubblica.
È, quindi, naturale che il dibattito elettorale si svolga in un clima di serenità, visti gli scenari possibili dopo il voto, e soprattutto è urgente che la prossima legislatura apra delle prospettive autentiche di riforma, se si vuole evitare che il blocco del sistema istituzionale crei delle condizioni simili a quelli di altri Paesi, dove, dopo il voto, sono stati necessari diversi mesi per nominare il nuovo Governo e gli Stati sono stati governati dai dicasteri ereditati dalla precedente legislatura.
D’altronde, fino a prova contraria, siamo in una Repubblica parlamentare ed il vertice del Governo lo nomina il Capo dello Stato e non gli elettori attraverso il voto, per cui sia Renzi, che Di Maio farebbero bene a parlare di programmi, piuttosto che di premierati possibili che, a tutt’oggi, sono una mera chimera per condizioni oggettive e per difficoltà politiche, ormai, largamente incancrenite.
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