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Le classi dirigenti in Italia

mercoledì, 13 dicembre 2017 22:41

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Rosario Pesce
È evidente che il nostro Paese ha, sempre, avuto un problema di classi dirigenti, considerate molto spesso poco nutrite ed, in particolare, non adeguate alle necessità del tempo storico.
Peraltro, è sempre stato ridondante un elemento di riflessione importante: il trasformismo dei ceti dirigenti, che si è consumato in tutti i passaggi essenziali del nostro Paese.
Nei momenti dello scioglimento dei vari Regni e della costituenda Unità nazionale nell’Ottocento; nel passaggio dalla monarchia liberale al regime fascista; nella transizione dal Fascismo alla democrazia, in tutte queste congiunture storiche taluni spezzoni dei gruppi di potere e delle élite sono passati dal precedente sovrano a quello successivo secondo uno schema di mero trasformismo, che certo non ha fatto bene al Paese.
Non è un caso, se Salvemini chiamò “ministro della malavita” Giolitti, visto che anche egli utilizzò i notabili della precedente epoca storica per costruire un potere, che è arrivato fino quasi all’ascesa del Fascismo.
Perfino, dopo la Liberazione e l’iniziale epurazione, tornarono in alcuni ruoli dello Stato dei gruppi che avevano, almeno, simpatizzato con il Fascismo, a dimostrazione che neanche la guerra civile fu un discrimine profondo fra il “dopo” ed il “prima”.
Ed oggi?
È evidente che, quando parliamo di classi dirigenti, non parliamo solo di ceto politico, ma anche di coloro che hanno un ruolo egemone o di guida nella società e che sono in grado di indirizzare, comunque, gli orientamenti di una pubblica opinione che, molto spesso, è disorientata rispetto alle novità del tempo presente.
Negli Stati Uniti d’America esiste un meccanismo oleato, che è quello dello spoil system, che consente di modificare tutte le espressioni apicali delle Amministrazioni, locali e centrali, con il cambio del vertice politico.
Questo sistema presenta degli indubbi vantaggi, ma anche degli evidenti limiti, visto che apre le porte ad una discontinuità molto forte, che può avvenire con frequenza quadriennale.
Il nostro Paese predilige piuttosto la continuità, che è un valore, se ovviamente non si identifica con la cristallizzazione, per troppo tempo, di un medesimo stato di cose.
Certo è che, con la conclusione del Novecento, in particolare sono andate scomparendo le famiglie tradizionali del capitalismo italiano, che hanno rappresentato un elemento vitale per la nostra economia nazionale e che sono state sostituite da poteri economici internazionali, che molto spesso non hanno né un volto, né una matrice ben visibile.
Questo, forse, è stato l’elemento dirimente per la crisi odierna, perché l’indebolimento del capitalismo familiare ha “disumanizzato” la nostra economia, facendo sì che i calcoli cinici prendessero il posto di ragionamenti e condivisioni, che avevano una natura squisitamente politica.
Pertanto, come dopo un conflitto mondiale, gli Italiani sono in presenza di due impegni: ricostruire la spina dorsale economico-produttiva del nostro Paese e rigenerare il ceto politico, che è parte essenziale in una moderna democrazia rappresentativa.
Ce la faranno gli Italiani o il periodo di “vacatio” delle classi dirigenti continuerà, ancora, per molto, troppo tempo?
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