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Strategie diverse, fine comune

mercoledì, 28 gennaio 2015 12:17

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Rosario Pesce
Man mano che procedono le consultazioni di Renzi, si intuisce sempre più nitidamente la dinamica, che si sta sviluppando sullo scacchiere per il Quirinale: cerchiamo di analizzarla e di capirne gli sviluppi probabili.
Da una parte, c’è il Nazareno, cioè l’accordo dello scorso gennaio fra lo stesso Renzi e Berlusconi: ovviamente, qualsiasi patto, per quanto saldo possa essere, è soggetto a ricontrattazioni, per cui - anche in questo caso, tanto più dopo il varo della legge elettorale - uno dei contraenti, Berlusconi, cerca di rimodulare il suo potere nella trattativa, dato che ora ha un grande credito da dover incassare, derivante dal fatto che il sostegno dei suoi Senatori è stato essenziale per la buona riuscita della revisione del meccanismo elettorale a Palazzo Madama.
Pertanto, se fino a qualche giorno fa, in virtù del Patto, Renzi poteva sperare di imporre al suo alleato il nome da lui maggiormente gradito, oggi le cose non stanno più esattamente così: a quel tavolo, è Berlusconi che ha la forza di indicare un nominativo e di vincolare l’elezione del futuro Capo di Stato alla personalità, che egli benedice.
Quindi, Renzi non potrà più immaginare di eleggere al Quirinale un uomo di sua strettissima fiducia, perché il Cavaliere non glielo consentirebbe, pure con il sostegno di Alfano, che, nonostante sia alleato del Presidente del Consiglio, sente sempre forte il richiamo della sua vecchia militanza in Forza Italia, per cui, ineluttabilmente, egli è un utile ausilio alla strategia berlusconiana.
In questo modo, la prima giornata di consultazioni è servita a mettere da parte tutti i nominativi, che potevano essere graditi al Presidente del Consiglio, da Gentiloni a Delrio, probabilmente da Fassino a Padoan. Frattanto, il Cavaliere tratta, anche, con la minoranza del PD, precisamente con quella costituita da D’Alema e Bersani, che – comunque andranno le vicende quirinalizie – rimarrà nel PD e non cadrà nell’abbraccio con la Sinistra vendoliana.
È noto che i due ex-leaders dei DS sostengano la candidatura di Giuliano Amato, con il quale hanno condiviso venti anni di storia all’interno del maggiore partito della Sinistra, quando il Dottor Sottile veniva in soccorso loro nei momenti più tristi, come nel 2000, dopo la crisi del Governo D’Alema.
Amato ha, perfettamente, il profilo richiesto dagli ex-ds: personalità autorevolissima e nota in tutto il mondo, autonoma da Renzi e dal renzismo, immagine plastica, in caso di elezione, che la rottamazione, tanto voluta dal Presidente del Consiglio, è stata un mero feticcio, perché, nella fase del bisogno, inevitabilmente si fa ricorso alle energie migliori della Prima Repubblica, sebbene siano, anagraficamente, avanti negli anni e rappresentino la storia italiana, che Renzi - senza riuscirvi - nel corso del 2014 ha tentato di rottamare.
Berlusconi, che ha una malizia volpina, ha l’interesse a sponsorizzare Amato, perché, innanzitutto, ipotizza che il giudice costituzionale, una volta eletto al Quirinale, possa non essere ostile nei suoi confronti, in virtù dell’amicizia ai tempi di Craxi, e perché sa bene che, se riesce ad imporre il nome del Dottor Sottile, impartisce al Presidente del Consiglio una lezione importante davanti al Paese intero, dimostrando che, nonostante i suoi problemi giudiziari, ha tuttora un potere contrattuale significativo nella politica nazionale.
Accanto a questa dinamica, ce n’è una parallela, i cui protagonisi sono Vendola, Civati e Grillo: essi, oggi, potrebbero ufficializzare la candidatura comune di Prodi, rigorosamente alternativa a quella del Nazareno, benché il livello di prestigio internazionale di Amato e del Prof. di Bologna sia perfettamente analogo.
È evidente che, se i numeri in Parlamento non mutano sensibilmente, l’indicazione di Prodi non ha alcuna chance di arrivare al successo, ma è pleonastico sottolineare che l’operazione della candidatura prodiana è funzionale alla nascita, nel Paese, di una Sinistra alternativa al PD, i cui referenti dovrebbero essere il Presidente della Regione Puglia, il deputato democratico lombardo e quanti, nelle prossime settimane, decideranno di uscire dal Partito Democratico a guida renziana.
Diventa, così, ridondante, l’esistenza - di fatto - di due minoranze interne al Partito Democratico: una, socialdemocratica e rappresentata dai leaders storici degli ex-DS, ed un’altra che, sul modello di Syriza, intende costruire un polo alternativo al principale partito del Centro-Sinistra italiano.
Le strategie di tali forze, nelle settimane prossime, saranno convergenti o prenderanno strade sempre più distanti le une dalle altre?
È giusto sottolineare che il difficile test dell’elezione del Presidente della Repubblica abbia, quindi, un valore fondamentale, per comprendere i rapporti di forza fra renziani, bersaniani e civatiani.
Dai fatti quirinalizi, si intuirà il potere contrattuale che il Presidente del Consiglio avrà ancora, visto che sia i bersaniani, sia i civatiani – per quanto agiscano con metodi ben diversi fra loro – ambiscono, comunque, a mettere in difficoltà il Premier, indebolendolo pubblicamente, arrivando – come fanno i primi – a mettere in preventivo l’ipotesi di un accordo finanche con Berlusconi, pur di togliere - al loro Segretario Nazionale, nonché Capo di Governo - la centralità istituzionale, avuta nel corso dell’ultimo anno.
L’unico, che in tal caso può gioire, è il Cavaliere, il quale si è divertito, prima, nel contribuire a creare le premesse per le fortune di Renzi ed, oggi, con il sostegno alla candidatura di Amato, gioca a ridimensionare il Premier, nell’ottica esclusiva della tutela degli interessi propri, personali ed aziendali.
Forse, Renzi, dalle trattative odierne per il Quirinale, uscirà molto più malconcio di Bersani nel 2013?
Sarebbe, questo, l’esito di un oscuro automatismo di Giustizia divina?
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