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Rosario Pesce
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Quella del Calcio Napoli è una crisi non solo calcistica.
È evidente che, quando una stagione sportiva prende una piega diversa da quella che si sperava ad inizio di anno, la delusione non può che assumere una dimensione significativa, in particolare se si ipotizzava di poter correre per lo scudetto ed, invece, ci si ritrova esclusi finanche dalla Champions.
Ma, a Napoli si sa bene che ogni sentimento – sia negativo, che positivo – assume una connotazione ridondante, per cui quelle che sono sconfitte calcistiche stanno sempre più coinvolgendo un’intera città e la regione tutta, visto che il calcio, in particolare al di sotto del Volturno, è il primo fenomeno per ampiezza sociale.
Ed, allora, cosa fare se i risultati non premiano più il Napoli o se i suoi calciatori migliori sembrano demotivati e svogliati e se, qualche volta, anche gli arbitri e la fortuna hanno contribuito a creare una simile condizione di contesto?
Le risposte sono ovvie: non si va allo stadio oppure chi ci va, lo fa per fischiare e per contestare quelli da cui si sente tradito.
Naturalmente, se questi fenomeni rimangono nel solco della civiltà e del rispetto della legalità, non ci si può lamentare, se il tifoso esprime - in modo legittimo - il proprio disappunto per uno spettacolo che paga e che non lo soddisfa.
Nella città partenopea, però, tutto si amplifica: si ipotizzano scenari indicibili; si costruiscono dietrologie intorno a questo o a quel calciatore, insomma ogni errore diviene la premessa per la costruzione di una letteratura popolare che appassiona non solo i tifosi e gli sportivi.
Ed ecco che si arriva ben presto ad una condizione limite, visto che si deve stare attenti ad evitare pericolose degenerazioni, possibili sempre quando si manipola una materia delicata come la passione sportiva.
D’altronde, noi Meridionali abbiamo ben pochi motivi di gioia e, quando vengono meno pure quelli legati alle gesta dei nostri amati campioni, è chiaro che la vita diviene ancora più grama di quanto, già, essa non lo sia.
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