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domenica, 23 ottobre 2016 10:14 |
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Rosario Pesce
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Il rapporto fra l’Italia e gli Usa non è, mai, stato particolarmente facile.
È vero che, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e dal dopo-Yalta in poi, siamo stati alleati fedeli degli Americani, ma è altrettanto vero che, nel corso di circa settant’anni, molte cose sono successe, che hanno contribuito a rendere le relazioni internazionali non sempre, particolarmente, lineari e trasparenti.
Il sostegno americano è stato necessario per fare uscire il nostro Paese dalle macerie economiche del Fascismo, così come non si può non riconoscere che la vita culturale italiana sia stata condizionata dalle mode e dalle tendenze, che abbiamo importato dagli Usa.
Detto questo, bisogna anche sottolineare come le classi dirigenti italiane, anche quelle più vicine agli Stati Uniti, hanno tentato sovente di rendere più debole il legame fra l’Italia e gli Usa, allo scopo di sottolineare la nostra autonomia da un alleato, altrimenti, ingombrante e finanche pericoloso, per certi aspetti.
Non è un caso se, in piena Guerra Fredda, alla fine degli anni Settanta, l’Italia ha costruito un ottimo rapporto con il mondo arabo-palestinese, nonostante il volere degli Americani, che erano per ragioni storiche e culturali convinti filo-israeliani.
Con la nascita dell’Ue, noi tutti abbiamo nutrito il sogno di un Paese europeista piuttosto che filo-atlantico, ma il progressivo indebolimento della prospettiva europea fa sì che, ancora tuttora, gli Stati Uniti siano l’unico essenziale punto di riferimento in politica estera.
Certo è che sembra un po’ anacronistico il viaggio di Renzi negli Usa alla vigilia del referendum del prossimo 4 dicembre, così come ci appare insolito il sostegno di Obama - il cui mandato scadrà a breve - in favore di un Premier, come Renzi, che rischia per davvero la propria carriera sul Sì alle riforme costituzionali.
Peraltro, nessun Italiano, che ha interesse all’autodeterminazione del suo Paese, ha apprezzato il fatto che una potenza straniera possa, ancora, avere spazi di ingerenza nella nostra vita politica, a tal punto che il Presidente americano non solo ha sponsorizzato il Sì, ma ha dichiarato che Renzi dovrà rimanere a fare il Premier, finanche in caso di vittoria del NO.
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Sarebbe, per davvero, un inquietante e pericoloso salto indietro, se la nostra classe dirigente prendesse ordini da quella statunitense, così come mai è avvenuto, forse neanche negli anni Cinquanta, quando pure gli Americani ci foraggiavano attraverso il Piano Marshall e condizionavano il Governo attraverso la longa manus della Democrazia Cristiana e delle varie Gladio.
Peraltro, dobbiamo pur capire dove collocare il nostro Paese nello scacchiere internazionale.
Gli Americani non hanno mai amato l’Unione Europea in modo particolarmente ridondante, per cui delle due l’una: o siamo filo-europeisti e la politica nazionale la si decide - al più - a Bruxelles, ma non a Washington, o siamo filo-americani, come nell’immediato dopoguerra, ed allora mettiamo da parte tutto ciò che, in questi decenni, è intercorso fra noi e gli alleati continentali.
Noi non siamo gli Inglesi, che sono rimasti coinvolti per decenni nella costruzione europea in modo molto tiepido e poco convinto: siamo tra i fondatori dell’U.E. e, per rispetto di questo nostro ruolo, forse dovrebbero cessare i viaggi della speranza oltreoceano, che delegittimano chi tenta di costruire una soggettività politica europea forte ed autorevole.
Forse, Renzi non ha ragionato su tali motivazioni, ma ha semplicemente percepito il suo interesse immediato: il viaggio americano, certo, lo può aiutare a consolidare il rapporto con le establishment italiane sensibili ai suggerimenti, che vengono da Washington, ma lo indebolisce moltissimo in termini di autorevolezza, perché neanche De Gasperi o Andreotti o Cossiga sono apparsi, in passato, così legati al carro statunitense, da sembrarne psicologicamente sudditi.
La politica estera di uno Stato è cosa molto seria e, crediamo, non può essere piegata ad un interesse elettoralistico immediato, per quanto possa essere avvertito come importante.
Forse, siamo tornati ai tempi di un certo atlantismo acritico?
O, forse, quell’incontro alla Casa Bianca ha visto per protagonisti due Presidenti, entrambi a fine mandato, che hanno cercato di consolidare reciprocamente le rispettive precarie posizioni, finendo per apparire così tragicamente, ancora, più deboli di quanto essi non siano?
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