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E, poi, le donne: quelle napoletane sono mamme, mogli, compagne, complici straordinarie dei loro maschi, che vogliono proteggere, e mai succube del sesso forte, visto che la stessa città antica, Partenope, prende nome da una semidea, quindi da un soggetto mitologico femminile, a dimostrazione del fatto che le origini greche ed, in particolare, focesi della città si radicano nei culti pagani della Donna sacra per antonomasia, Madre Gea, a cui tutta la cultura mediterranea è devota, dato che il bacino del Mare Nostrum era il luogo elettivo di quel culto antichissimo, che ha consentito che qui - contrariamente ad altrove - non germogliasse alcuna forma di misoginia e nascesse una tipologia raffinata di matriarcato.
D’altronde, ancora oggi, è percepibile il primato della donna nella società napoletana, a qualsiasi classe essa appartenga: la donna aiuta, suggerisce, prende l’iniziativa, difende le persone amate, sia nella vita privata, che in quella pubblica ed istituzionale, con la medesima forza con cui un mammifero protegge la sua prole, dopoché l’ha messa al mondo e continua a difenderla, finanche dopo che questa ha acquisito la sua giusta indipendenza.
Napoli, dunque, è città “femmina”: include al suo interno, come una madre può farlo, anche, con cuccioli che non appartengono alla sua razza, ma - al tempo stesso - può essere portatrice di sentimenti molto forti, per cui l’intera gamma sentimentale - dall’amore sfrenato e possessivo all’odio più viscerale e criminale - rientra a far parte della psicologia della donna napoletana.
Napoli è “femmina”, perché con la medesima facilità con cui si fa sedurre, alla stessa maniera si fa abbandonare: quante potenze straniere, dall’età antica in poi, hanno conquistato la città partenopea, l’hanno ridotta sotto il proprio violento giogo e, poi, l’hanno abbandonata, quando il nuovo potente di turno ha imposto, con la forza delle armi, il cambio di scenario politico?
Napoli, tuttora, è “femmina”, perché continua a guardare con ammirazione a ciò che le è lontano, non sapendo forse valorizzare ciò che essa stessa serba nel suo grembo: in molti aspetti della vita civile, infatti, la città partenopea si innamora - troppo facilmente - della novità, che proviene da fuori, come se la bontà del nuovo dovesse dipendere – ad ogni costo – dalla carta d'identità dell'invasore straniero, che - pur non esistendo più nelle pagine della storia contemporanea e sulle carte geografiche - continua a condizionare, in forme molto più subdole, il naturale corso degli eventi.
Napoli, infine, non cessa di essere “femmina”, perché molto, troppo spesso i media hanno modo di dileggiarla, senza pagare alcun fio: alla pari di una donna violentata, essa si agita nei racconti di quanti, non comprendendola o – peggio ancora – temendola, hanno interesse a sminuirne il fascino e la bellezza, mettendone in evidenza più gli sfregi – che, indubbiamente, essa reca – piuttosto che i lineamenti aristocratici, che sono parte integrante del suo codice genetico.
Ed è, proprio, l’aristocrazia il ceto che continua, con fatica, a governare a Napoli e a renderla seducente: non più, chiaramente, un’aristocrazia del censo, ma dell’intelletto, erede di quella che, nel 1799, tentò invano di fare di Napoli la Parigi del Mediterraneo, detronizzando il re assoluto, che invece vi fece presto rientro, e creando solo per una brevissima stagione le libertà civili, che i Borbone e la Chiesa cattolica avevano soffocato, pensando bene che il pane – finanche scarso e malfermo – potesse tornare utile al popolo minuto molto più dell’istruzione e del diritto di voto.
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