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Rosario Pesce
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Quarantadue anni dopo la morte di Aldo Moro, per mano delle B.R., non si può che fare una disamina di quello che è successo nel nostro Paese.
La fine tragica del Presidente della D.C., in quel momento autorevole candidato alla Presidenza della Repubblica con il consenso del PCI, ha messo fine ad un periodo lunghissimo della storia italiana, visto che da quel 9 maggio 1978 molte cose sono cambiate profondamente.
La Prima Repubblica, infatti, non è morta nel 1992, per effetto di Tangentopoli: quell’evento storico ne definì la morte per mano giudiziaria, ma il vero decesso – quello politico – fu consumato in quei giorni di prigionia di Moro, nel corso dei quali i due principali partiti della Repubblica decretarono la morte dello statista democristiano non volendo fare alcuna trattativa con le BR, mentre prima e dopo quel 1978, in altre occasioni della storia nazionale, le istituzioni trattarono con i Brigatisti, come successe nel caso Cirillo.
Moro da quella prigionia doveva uscire morto e così fu, visto che i poteri internazionali ne avevano decretato la morte, perché contrari al Compromesso Storico e, quindi, all’apertura ai Comunisti che Moro promosse nel biennio 1976/78.
Molti segreti di Stato sono finiti nella tomba di Cossiga e di Andreotti che, rispettivamente Ministro degli Interni e Premier, guidarono il Paese in quel triste momento storico, negando ogni spiraglio di trattativa che potesse aprire una speranza di vita per Moro, ma soprattutto per la democrazia italiana.
Il nostro era un sistema bloccato per ragioni internazionali: la DC doveva governare, nonostante la sua classe dirigente fosse invisa a molti Italiani, ed il PCI doveva stare all’opposizione, perché non poteva andare al Governo in un Paese occidentale.
Morò pensò di rompere questo blocco, mettendo insieme le diversità: operazione ardua, visto che i nemici erano presenti sia in Italia, che all’estero.
Peraltro, in democrazia due partiti, come il PCI e la DC dell’epoca che mettevano insieme quasi l’80% del consenso, non possono stare insieme, devono essere alternativi l’uno all’altro, se non si vuole generare un corto circuito nel sistema parlamentare.
Per questo motivo, il Compromesso Storico, per quanto ispirato da nobili principi di ampliamento della base democratica di un Paese complesso qual era il nostro, era destinato al fallimento: certo, quell’indirizzo politico doveva essere sconfitto dai cittadini e non dalla mano omicida dei Brigatisti, armata da soggetti che rimarranno sempre ignoti.
Chi, invece, emerse da quel momento triste come personalità autorevole ed indipendente fu Bettino Craxi, che intuì che la morte di Moro avrebbe segnato un punto di non ritorno nella storia della Repubblica, che avrebbe fatto implodere i due partiti che avevano rivolto lo sguardo altrove, mentre Moro moriva dannato nella prigione cosiddetta del popolo.
Ma, la maledizione di Moro contro il suo stesso partito si è, poi, compiuta contro la Repubblica.
Invero, la DC non fu più in grado di raggiungere quel 38%, che aveva conseguito alle elezioni del 1978, ma l’intero sistema è saltato dopo in modo inesorabile: Andreotti processato per mafia ed assolto solo per prescrizione relativamente ad un periodo per i reati contestatigli; Craxi morto all’estero con lo status di un condannato che si era sottratto alla pena; i Comunisti costretti nel 1989 - dopo la caduta del Muro di Berlino - ad ammettere di aver difeso per decenni le ragioni di una potenza mondiale, l’URSS, che era incompatibile con le nostre libertà e con la democrazia parlamentare; tutti i partiti della Prima Repubblica sciolti come neve al sole nel biennio 1992/94.
Ne emerge un giudizio molto triste: un puzzle culturale ed istituzionale, che si scompose in quel terribile 1978, e che non si è più ricomposto e che, forse, tarderà ancora a generare un nuovo equilibrio che consenta all’Italia di recitare, nuovamente, un ruolo di primato nel mondo.
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