|
|
Rosario Pesce
|
|
La crisi di Governo, che Salvini ha cagionato in modo inatteso ed imprevedibile prima di Ferragosto, ha già prodotto danni, a prescindere poi dagli esiti istituzionali che essa determinerà.
Si sa bene, infatti, che il nostro Paese non è mai effettivamente uscito dal dopo-Tangentopoli del biennio 1992/94, nel senso che la delegittimazione, che produssero le indagini penali a carico del ceto dirigente dell’epoca, non è cessata e da quel momento storico in poi si è innescato un corto circuito fra il Paese reale e le istituzioni, da cui - evidentemente - non siamo ancora emersi, se è vero che il populismo e l’ondata di avversione alla politica non sono mai cessati.
Il problema è di non poco conto, anche perché le soluzioni, che si è tentato di realizzare nel corso dell’ultimo ventennio, non hanno cagionato gli effetti desiderati.
I cambiamenti continui della legge elettorale e quelli – riusciti e falliti – della Costituzione non sono stati utili: il popolo – che in ogni democrazia detiene la sovranità – si è allontanato sempre più dal proprio ceto politico, per cui ad ogni tornata elettorale il movimento, che nasce e che si identifica per un indirizzo manifestamente populistico, corre il serio rischio di vincere le elezioni, salvo poi tornare a cifre irrisorie alle successive elezioni.
È ovvio che la crisi della rappresentanza politica determina, poi, altre conseguenze che sono inesorabili: la diminuzione progressiva dell’elettorato attivo e, soprattutto, le continue crisi dei Governi e delle maggioranze parlamentari, che si reggono su piedi di argilla.
Un tempo, infatti, i partiti trovavano la loro ragione d’essere nelle ideologie, che – per quanto opinabili fossero – erano comunque una malta preziosa, su cui edificare l’edificio politico-istituzionale.
Oggi, quel fattore aggregante non c’è più e, quando la politica diviene espressione disincantata di interessi che non hanno alcun fondamento nella ricerca del bene comune, è ovvio che la reazione di rigetto finisce per coinvolgere molti e non solo i ceti più poveri e meno attrezzati culturalmente della società.
Questo processo non può che danneggiare dalle fondamenta la democrazia parlamentare, che si basa sul principio della rappresentanza, per cui due divengono - per molti - le vie d’uscita: o la richiesta di forme di democrazia diretta, che però in tale contesto rischia di divenire assimilabile all’odiata oclocrazia aristotelica, o l’uscita da parte di tantissimi cittadini dalla dimensione della politica e della cura dell’interesse pubblico, per rifuggire in una visione ed in una prassi meramente privatistiche delle istituzioni.
Si può arretrare così tanto rispetto ai gradi di civiltà – giuridica e morale – che nel Novecento l’Europa ha conseguito?
Ogni leader, ogni partito, ogni espressione del consenso è il frutto più autentico del suo tempo storico: forse, viviamo in una contingenza “minor” rispetto alla fase aulica della storia occidentale?
|
|