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Rosario Pesce
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La vicenda dei 42 profughi, che sono stati condotti nel porto di Lampedusa dalla capitana di una nave ONG, non può non interrogare sia le ragioni della morale, che quelle del diritto, visto che si tratta della vita di persone che scappano dalla miseria e da stenti di ogni tipo.
Non è nostro interesse processare la giovane donna, che ha avuto il coraggio (o l’ardire?) di condurre in porto quegli individui e di trarli in salvo: saranno i tribunali competenti a definire la sua condizione ed a condannarla o ad assolverla in base all’interpretazione più giusta ed equa del diritto nazionale, di quello nautico e di quello internazionale.
Non siamo giuristi e, perciò, non azzardiamo né tesi colpevoliste, né tesi innocentiste.
Certo è che, al fondo di questa vicenda, come di molte altre che potrebbero consumarsi nel Mediterraneo nei prossimi mesi, sta trovando plastica realizzazione la debolezza dell’Unione Europea, che ad oggi non è stata in grado di fornire una risposta univoca al grande problema dei flussi migratori, individuando – come era necessario – delle quote di accoglienza che avrebbero dovuto vincolare tutti i Paesi agli obblighi conseguenti.
Nulla di tutto ciò, per cui ineluttabilmente i Paesi più sovraesposti sono quelli, come l’Italia, che per la loro posizione geografica divengono le prime mete delle migrazioni.
Ed, in tale contesto, è altrettanto ovvio che l’Italia vada in difficoltà, visto che non esiste al momento alcuna forma proficua di dialogo con gli Stati, come la Francia e la Germania, che guidano ed orientano i destini politici dell’Unione.
Ma, fino a quando il muro contro muro fra Italia ed Europa può andare avanti?
Quando, finalmente, il nostro Paese e l’Unione potranno parlare il medesimo linguaggio a fronte della principale emergenza umanitaria, che si possa ricordare dai tempi del Secondo Conflitto Mondiale?
Forse, uno sforzo in senso politico può essere compiuto, anche perché l’antitesi continua fra le ragioni del diritto e quelle della morale porta solo tragedie, e noi che siamo eredi della cultura greca non vogliamo, invero, mettere sempre in scena il dramma di Antigone ed Ismene a fronte della necessità naturale della degna sepoltura delle spoglie mortali del fratello Polinice.
D’altronde, lo scenario del dramma odierno è la Magna Grecia di due millenni e mezzo fa, ma gli strumenti della soluzione possono essere più forbiti ed acuti, solo se si ha l’intenzione, per davvero, di percorrere positivamente tutte le possibili opzioni per uscire dall’impasse.
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