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Rosario Pesce
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È la tensione filosofica di sempre: l’Idealismo contro il Realismo.
Sin dal suo nascere, la speculazione filosofica occidentale si è divisa in due ambiti ben precisi: da una parte, chi ha accentuato l’esigenza di rapportare la riflessione alla prospettiva della concretezza e dei dati, percepiti dalla natura, e dall’altra parte chi, invece, volendo esprimere anche un’ambizione di ordine morale, ha messo in termini filosofici la giusta tensione verso un mondo diverso, che si potesse costruire con la forza del pensiero umano e del suo potere trascendentale.
Per secoli, una siffatta antitesi ha dominato il dibattito filosofico, fino a quando, nel corso della fine dell’Ottocento e dei primi decenni del Novecento, la filosofia non ha sancito la sua stessa morte, definendo dunque il passaggio a saperi umanistici di carattere empirico, come la psicologia o la psichiatria o le neuroscienze, che rispondono ovviamente ai canoni del Positivismo e delle scienze della natura applicate alla riflessione intorno alla mente umana.
La morte della filosofia, quindi, è coincisa in gran parte con la “positivizzazione” della ricerca dottrinaria: un esito prevedibile sin dagli inizi dell’Ottocento, quando la critica all’hegelismo ha, di fatto, preannunciato la conclusione dell’età aurea della teoresi occidentale.
È ovvio che, su esiti simili, ha influito non poco la piega che ha assunto il mondo della produzione, che ha sempre più avuto bisogni di saperi che avessero una dimensione applicativa, in linea con la trasformazione in senso capitalistico dei processi produttivi.
È evidente, quindi, che la filosofia, per sopravvivere, si sia poi trasformata in un altro specialismo a sua volta, la storia della filosofia tout court, che può essere narrata in forme diverse, ma che rappresenta pur sempre il tentativo, da parte dello storico, di costruire un impianto teoretico su di una narrazione che non ambisce ad essere la mera traduzione di “fatti” teoretici, atomici e parcellizzati nella loro singola individualità.
Ne è derivata, dunque, non solo la trasformazione radicale di una possibile prospettiva teoretica, ma soprattutto è cambiato il rapporto - di conseguenza - fra la società e l’idea di indagine intorno ai destini del mondo e dell’uomo.
Forse, il consesso sociale ne ha tratto un benefico vantaggio?
Forse, l’Uomo, allontanato dalla dimensione del pensiero puro e spinto verso il pensiero rivolto “a qualcosa”, ha smesso di cercare la sua essenza, all’unico scopo di migliorare il livello di benessere proprio e delle generazioni future?
Certo è che un mondo senza la filosofia ci appare più povero e non solo in termini, strettamente, teoretici: la crisi attuale delle principali istituzioni occidentali – dalla famiglia allo Stato – non può che esserne, d’altronde, la prova più eclatante.
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