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Pierre de Coubertin (Parigi, 1º gennaio 1863 – Ginevra, 2 settembre 1937)
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Rosario Pesce
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Il nostro è un Paese privo della giusta e necessaria cultura della sconfitta.
Una prova?
Ieri sera, dopo la partita di Supercoppa fra Juve e Lazio, persa dai campioni in carica, il loro calciatore più rappresentativo, Higuain, pagato quasi cento milioni di euro la scorsa estate, si è tolto dal collo la medaglia d’argento in cattivo modo, con un gesto di inelegante stizza, che evidenziava come non avesse accettato una sconfitta, pur sacrosanta se si analizza l’andamento del match, alla fine del quale la squadra sabauda ha ampiamente meritato di essere “solo” seconda in una competizione, comunque, importante.
Certo, il nervosismo avrà giocato la sua parte in quell’azione tanto imprevista, quanto plateale.
Ma, non possiamo, per questo motivo, giustificare chi, con i propri gesti e le azioni conseguenti, rappresenta un modello per milioni di giovanissimi atleti, che ora si affacciano alla pratica sportiva e che aspirano a divenire novelli Higuain o Cristiano Ronaldo.
Peraltro, il calcio è lo sport per definizione degli Italiani, per cui non si capisce bene perché i valori decoubertiniani dovrebbero affermarsi in sport minori e non dovrebbero trovare, invece, asilo in quello che, più di altri, attrae milioni di giovani e miliardi di euro di investimenti.
Pertanto, non sarebbe cosa infausta, se quel calciatore, nonostante le scuse successive, subisse una squalifica, che possa essere esemplare per lui stesso, per i suoi compagni di spogliatoio e per quanti praticano il calcio al medesimo livello di esasperato professionismo.
In Spagna, ad esempio, sono stati giustamente severi con Cristiano Ronaldo, reo di aver dato uno spintone ad un arbitro dopo una decisione avversa a lui ed alla sua squadra.
D’altronde, se le punizioni esemplari non vengono inferte ai campionissimi, possiamo mai accontentarci di quei provvedimenti disciplinari, che vengono comminati, per eventi analoghi, ai calciatori delle serie inferiori, che neanche fanno notizia?
L’iper-professionismo nel mondo del calcio non fa, certo, bene: la competizione è giusta, ma prima di tutto viene il rispetto per l’avversario e per lo spettatore, che ha speso diverse decine di euro per assistere ad uno spettacolo, che deve in primis essere catartico, così come lo erano i giochi olimpionici ai tempi dell’antica Grecia.
Ma, si dirà che quello è un mondo che non esiste più e che la contingenza storica, che stiamo vivendo, è ben più grama dei tempi di Aristotele e di Platone, quando la pratica sportiva serviva per educare un’intera comunità al rispetto del prossimo e dell’avversario.
I soldi inoltre, molto copiosi nel calcio, non aiutano: qualsiasi calciatore, a determinati livelli, non vuole mai perdere, anche perché la sconfitta determina una “deminutio”, in termini di immagine ed economici, a volte non irrilevante.
In tal senso, il gesto inelegante di Higuain è destinato a non rimanere solitario, per cui altri calciatori saranno rei di azioni, che non educano nessuno ai valori della sportività.
Ma, siamo sicuri che, perfino, la società non sia meno malata del calcio professionistico?
Forse, è questa una primaria questione educativa, che deve essere gestita a partire dalle famiglie e dai banchi della scuola?
O, forse, questa semplicemente non è più una questione ritenuta di primaria importanza, per cui, in nome del danaro e della gloria, si può fare a meno dei codici etici e deontologici?
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