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giovedì, 04 febbraio 2021 08:00 |
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Dal nostro inviato
Francesca Bianchi
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FtNews
ha intervistato il prof. Giulio Guidorizzi, grecista, traduttore, studioso di mitologia classica e di antropologia del mondo antico. Già professore ordinario di Letteratura Greca presso l’Università di Torino, lo studioso ha parlato dei suoi due ultimi libri, entrambi usciti nel 2020: Sofocle. L’abisso di Edipo pubblicato da il Mulino nella nuova serie “La voce degli antichi”, ed Enea, lo straniero. Le origini di Roma, edito da Einaudi. Nel corso della nostra piacevole conversazione, Guidorizzi ha spiegato il motivo per cui l'Edipo re, capolavoro tragico per eccellenza, considerato già da Aristotele modello perfetto di tragedia, divenne un punto di riferimento imprescindibile e costante per Freud, tanto da essere considerato il mito della fondazione della psicanalisi. L'Edipo re affronta un argomento profondamente attuale come quello del rapporto tra destino e libertà, tra colpa e volontà. La vicenda di Edipo ci fa capire che in ognuno di noi c'è una parte inconscia, ingovernabile, oscura e misteriosa, ignota persino a noi stessi, che in qualsiasi momento può uscire allo scoperto causando dolore e sofferenza. Edipo mostra che ognuno può essere chiamato, prima o poi, a fare i conti con l'ingovernabile, con il mistero che spesso, a nostra insaputa, avvolge la nostra vita, pronto ad uscire allo scoperto e a scatenare conseguenze terribili. Edipo si considera un prescelto, un uomo fortunato: è un re, ha risolto l'enigma della Sfinge salvando, così, la città di Tebe; all'improvviso, però, scopre il suo lato oscuro e diventa un assassino, un criminale, un maledetto, sprofondando nel suo abisso di tormento senza fine. Qui risiede la sua forza tragica, il fascino inesauribile che continua ad esercitare a distanza di millenni. Incerta e imprevedibile è la sorte degli uomini, come ci ricordano le ultime, sconsolate parole del Coro sulla fragilità della condizione umana, che a distanza di millenni risuonano in tutta la loro potente solennità, tanto drammatiche quanto tremendamente veritiere: Non dire felice uomo mortale, prima che abbia varcato il termine della vita senza aver patito dolore.
Parlando di Enea, lo straniero, il prof. Guidorizzi ha spiegato il motivo che l'ha indotto a riscrivere il mito di Enea e si è soffermato sui criteri adottati nella sua riscrittura. Più volte ha focalizzato l'attenzione sul messaggio più importante dell'eroe virgiliano: essere un popolo solo e custodire le propria memoria. L'invito di Enea ad essere uniti e ad accogliere il diverso è la lezione più alta lasciataci dall'Impero romano, che seppe fare tesoro della mescolanza di popoli e dell'inclusione delle popolazioni sconfitte. Enea è consapevole che senza la memoria un popolo non potrà mai avere un'identità, un futuro, per questo decise di fuggire da Troia caricandosi sulle spalle l'anziano padre, simbolo della memoria della sua comunità. Nella nostra coinvolgente intervista, il grecista ha affermato che Edipo ed Enea sono due eroi accomunati dal rapporto con il destino: un destino personale, fortemente tragico quello di Edipo, contrapposto al destino collettivo di Enea, che si fa carico di un'intera comunità. Enea non ha il tormento interiore che rende Edipo il prototipo dell'eroe tragico. Nel suo animo si consuma la lotta tra la consapevolezza di avere responsabilità importanti nei confronti della sua comunità, dei suoi compagni, che attendono di raggiungere una nuova patria, e il desiderio di avere una sua vita privata. Alla fine prevarrà il senso del dovere, infatti Enea non esiterà ad abbandonare Didone, pur essendone profondamente innamorato, per portare a termine il suo ruolo di guida dei compagni che a lui si sono affidati. Enea comprende che il bene della collettività va oltre la sua felicità personale. Il differente destino di Edipo ed Enea è emblematico della differenza tra la cultura greca, fortemente individualista, e quella romana, che guardava con sospetto tutti coloro che miravano all'affermazione personale, ricercando gloria e onori: per i Romani la vita dei singoli trova compiuta realizzazione solo se inserita all'interno della società in cui vivono.
Nei miti classici troviamo tracce di noi, ci imbattiamo negli interrogativi che ancora oggi ci poniamo relativamente alla nostra identità, al senso della vita e della nostra presenza nel mondo. Il loro fascino ha attraversato indenne i millenni perché il linguaggio del mito è eterno, parla degli uomini e agli uomini di tutti le epoche. Attraverso la sua appassionata rilettura, Giulio Guidorizzi fa rivivere due figure chiave della classicità, rendendo in maniera mirabile l'attualità e la ricchezza della loro lezione e affidando alla nostra sensibilità il carico di emozioni che le loro storie continuano a suscitare.
Prof. Guidorizzi, nella collana La voce degli antichi, inaugurata qualche mese fa dalla casa editrice Il Mulino, ha pubblicato il libro Sofocle. L’abisso di Edipo. Nel volume offre un pregevole commento e una traduzione inedita dell'Edipo redi Sofocle. Dove risiede il fascino di questo capolavoro tragico, che già da Aristotele venne considerato il modello perfetto di tragedia, e che ancora oggi, dopo millenni, continua ad esercitare instancabilmente il suo fascino? Perché questo dramma è considerato un capolavoro insuperabile?
Come tutti i capolavori, l'Edipo re dice cose che appartengono a tutti noi. Dà voce all'indicibile, a quello che non è mai stato detto prima. La nostra vita è una matassa, un filo ingarbugliato; noi cerchiamo di prenderne un capo, ma possiamo rimanere aggrovigliati in mezzo. L'Edipo re tocca un problema fondamentale dell'essere umano, un problema culturale insolubile, che è quello del rapporto tra destino e libertà, i due poli esistenziali fondamentali di questa opera. Edipo si trova invischiato in una situazione così tremenda contro una sua scelta. Fino a che punto un essere umano può dirsi libero e artefice del proprio destino e fino a che punto, invece, c'è un caso, una forza misteriosa che lo condiziona? Spesso la volontà di un uomo di essere come intende essere è bloccata da forza ignote. Edipo ci mostra che noi non conosciamo noi stessi fino in fondo, ci fa capire che dentro ogni essere umano c'è una parte inconscia, terribile, oscura che può venire fuori in qualsiasi momento. Lui era convinto di essere una persona favorita dalla sorte, invece, a sua insaputa, era una criminale, un assassino, un incestuoso. Parlando di Edipo parliamo di noi stessi. Il fascino inquietante dell'Edipo re sta in questi temi.
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Nel corso del tempo il mito di Edipo ha costituito un punto di riferimento costante per Freud, tanto da essere considerato il mito della fondazione della psicanalisi. Quanto la psicanalisi ha utilizzato la figura di Edipo? Perché la psicanalisi ricorre al mito greco in maniera così frequente e costante?
Già nell’Interpretazione dei sogni del 1899 Freud parla di Edipo e scopre, o immagina di scoprire, che nel mito greco, in particolare in quello di Edipo, si nascondono significati che conducono verso le zone più oscure della psiche umana. Il mito greco parla di una materia primordiale sepolta in angoli oscuri della psiche umana, una materia che può emergere in qualsiasi momento. Cosa spinge un uomo a voler scoprire a tutti i costi i lati bui della propria mente? Perché Prometeo sfida il potere e sacrifica sé stesso, immolandosi per una causa che riguarda il genere umano? Il mito greco ci mette a contatto con quelli che Jung chiamerebbe archetipi, forme essenziali della nostra mente che vengono trasformate in racconti. Il mito greco tocca temi profondi della nostra identità, per questo continua a parlarci. Chi sono io? Dove posso cercare me stesso? Edipo scopre di avere un volto luminoso e uno oscuro. L'essere umano è fatto di due parti, una delle quali non è conosciuta, ma può venire sempre alla luce. Ci sono cose che noi non sappiamo di noi stessi, ma possiamo scoprire cercando quella parte oscura che condiziona l'altra, anche se noi spesso non ce ne accorgiamo. Questo è anche il processo clinico della psicanalisi.
Nel saggio lei parla di crisi del linguaggio e ambigua trappola della parola. Cosa si intende con queste due espressioni?
Leggendo l'Edipo re, ci si rende conto che molte cose avvengono attraverso molte parole che o non vengono intese o innescano un processo di autocoscienza. Sono dei lapsus che mettono in moto azioni che portano a conseguenze tremende. Edipo durante un banchetto si sente dire da un ubriaco che non è figlio di suo padre. Che credibilità potrebbe avere un ubriaco? Eppure questa rivelazione mise in moto qualcosa in Edipo, che proprio da lì cominciò la sua ricerca. Noi siamo anche il prodotto del nostro linguaggio inconscio, che ci porta ad usare determinate parole dotate di una loro forza autonoma; il lapsus non è altro che l'espressione di una verità inconscia. La parola dell'oracolo, il lapsus dell'ubriaco, l'enigma della Sfinge lasciano intendere che Sofocle probabilmente voleva dirci che il linguaggio in sé è ambiguo. Quando noi parliamo, non siamo sempre padroni delle nostre parole.
Che ruolo giocano la pietà e la paura all'interno dell'Edipo re?
La pietà e il terrore sono le emozioni fondamentali della tragedia. Lo sosteneva Aristotele pensando all'Edipo re, che lo Stagirita considerava la tragedia perfetta. Un'atmosfera greve, cupa domina in questo dramma, dove si assiste a un progressivo accumularsi di sospetto e angoscia. La pietà emerge nelle parole del Coro alla fine della tragedia, quando si afferma che Edipo fino a qualche istante prima era una persona potente e felice, mentre adesso è il più infelice degli uomini. Con queste parole il Coro vuole ammonire gli uomini che il destino di Edipo potrebbe essere quello di qualsiasi altro uomo: ciò che è capitato a lui potrebbe capitare a chiunque. In questa maniera si crea empatia tra lo spettatore e il testo, si trasferisce il personaggio nell'anima delle persone che lo vedono sulla scena.
Professore, lei lesse e tradusse per la prima volta l'Edipo re quando era un giovane studente universitario. Cosa la colpì, allora, di questo dramma sofocleo? Come mai ha deciso di corredare il saggio Sofocle. L'abisso di Edipo di una sua traduzione originale dell'opera?
Da studente ho tradotto la tragedia di Sofocle e lo rifaccio oggi, a distanza di molti anni, perché è terribilmente attuale. Una pestilenza smantella città e certezze per lasciarci soli davanti ai nostri mostri, ai nostri dubbi, alle nostre incertezze. Mi fece allora un'enorme impressione perché vi trovai l'essenza della civiltà greca, il dilemma fra libertà e costrizione, fra libertà e destino. Allora ero un giovane studente, non conoscevo Freud. Lessi l'Edipo re senza sapere nulla di Freud. Solo successivamente compresi che le due cose andavano insieme: la lettura della tragedia sofoclea mi aveva messo in condizione di capire che la natura di ognuno di noi è fatta di tante parti insondabili e autonome, che il problema fra destino e libertà, tra quello che una persona vuole essere e quello che poi riesce realmente a realizzare nella vita, è il senso della ricerca continua. Quella di Edipo è una scelta eroica: lui non ha voluto fermarsi, ha voluto continuare a cercare chi fosse. Questo è il compito della cultura: aiutare le persone a capire chi sono, condurle lungo questo percorso. Mi è parso necessario lasciare qualcosa di inedito: mi pareva che la mia carriera di grecista non sarebbe stata completa se non mi fossi misurato con un testo del genere. Ho proposto, così, una traduzione vicina al teatro, una traduzione più da dire che da leggere.
Lo scorso anno ha pubblicato anche il libro Enea, lo straniero .Le origini di Roma, edito da Einaudi. Il 2020 è stato considerato l'anno di Enea, dato che ha visto la pubblicazione di molti saggi dedicati all'eroe virgiliano. Perché, secondo lei, Enea ha avuto tanto successo nell'ultimo anno? Quando e come è nato in lei l'interesse nei confronti del capostipite della gens Iulia e quali criteri ha adottato nella riscrittura del mito di Enea?
Enea è stato riscoperto adesso, forse anche perché era stato dimenticato un po' troppo in passato. Enea non è un eroe così affascinante, così grande, non sembra avere un carattere possente come Achille o Ulisse. La grandezza di Enea sta nella sua capacità di portare con sé un'intera comunità. Quanto alla mia decisione di occuparmi di Enea, dopo aver riscritto l'Iliade e l'Odissea, volevo misurarmi con un ambiente completamente diverso, che è quello del mondo romano. Io ho cercato di mettere in questo libro non solo Enea, ma l'antropologia del mondo di Enea e del mondo contadino del Lazio arcaico in cui lui si è inserito. Enea cerca una patria e la trova in un ambiente di pastori e contadini, un mondo senza storia, un angolo oscuro del mondo in cui si praticano riti oscuri, un mondo di gente che non ha gli dèi gloriosi che dimorano sull'Olimpo e non ha il culto dell'eroe che dà tutto sé stesso in un solo momento. A me Enea è sembrato importante per la sua natura di uomo che è capace di donarsi agli altri, di prendersi sulle spalle non solo suo padre, ma il destino di tutto il suo popolo. Lui voleva che il suo popolo si fondesse con il popolo dalle oscure radici contadine che trova nel Lazio.
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Il libro si compone di sette capitoli, ognuno dedicato a una parola chiave dell'antropologia del mondo romano. Che criterio ha seguito nella stesura dei vari capitoli?
Ho cercato di individuare alcune idee fondamentali dell'antropologia del mondo romano. Faccio qualche esempio. C'è il Fatum, un amore, quella forza misteriosa che ha portato un popolo di contadini a dominare il mondo. Anche Polibio si chiedeva come mai questa società così arcaica avesse sviluppato un potere tale da arrivare a dominare il mondo. Non si può spiegare solo con la supremazia militare, ma bisogna considerare una serie di virtù e principi fondanti della civiltà romana, che io ho voluto ripercorrere. Nel capitolo "Sacer. Il re del bosco" forzo il testo dell'Eneide, perché la riscrittura non è un riassunto, ma bisogna ampliare i significati del testo. Nell'Eneide si parla del rito del ramo d'oro, che in realtà si svolge nei Colli Albani. In questo contesto si inserì un popolo che veniva da terre lontane e che decise di costruire lì la sua civiltà. Sacer è una nozione tipicamente romana; sacer vuol dire 'sacro', ma anche 'impuro', ovvero tutto ciò a cui è pericoloso avvicinarsi. Il sacro è il santo, ma è anche il reietto, i due estremi dell'esperienza religiosa.
Nella scrittura del capitolo "Gens una sumus. Un popolo solo" ho avuto qualche perplessità. Mi sono chiesto, infatti, che conclusione dare alla vicenda di Enea. Noi sappiamo che Enea eliminò Turno, ma un attimo prima di ucciderlo ebbe pietà di lui e cercò di risparmiarlo. Nell'equilibrio del messaggio di Enea non mi pareva opportuno terminare con una morte, per cui ho tenuto in sospeso, ho preferito concludere con l'immagine di Enea che alza la spada e grida: "Ora siamo un popolo solo!".
Essere un popolo solo: sembra sia questo, oggi, il messaggio più importante di Enea. Quale lezione possiamo trarre oggi dalla storia di Enea?
Queste parole spiegano il senso della storia di Enea: "noi siamo qui per essere un popolo solo". Enea diventerà il capo degli Italici e dei Troiani. Viene da una città distrutta, vuole la pace e vuole rifondare ciò che la guerra ha distrutto. Enea vuole unire. Questo è il suo messaggio: essere uniti, essere un solo popolo ed essere capaci di accogliere il diverso. Questo dovremmo fare noi oggi. Questo è il mio Enea, quello che ho letto e reinterpretato, un Enea che porta a termine il suo compito fino all'ultimo.
Fecisti patriam diversis gentibus unam ('tu hai fatto una patria sola da genti diverse'): queste parole del poeta Rutilio Namaziano (V sec. d.C.) indicano il significato storico di Roma, che fu in grado di includere le popolazioni sconfitte. Questo dovrebbe essere il motto dell'Europa di oggi. Enea è un profugo, un advena, uno straniero che porta con sé i suoi vecchi, arriva in un posto dove non esiste la civiltà, un posto oscuro popolato da contadini che vivono in piccoli villaggi. Enea arriva in questo posto ignoto e decide di fondare un solo popolo da diversi genti. Da questo momento non ci sono più Troiani, non ci sono più Latini: gens una sumus, 'siamo una gente sola', appunto.
Cosa accomuna Edipo ed Enea? Cosa ci comunicano oggi questi due eroi del mito classico?
Li accomuna il loro rapporto col destino: il destino individuale di Edipo, il quale sta affrontando la sua storia personale, e il destino collettivo che Enea, che si fa carico di un'intera comunità, porta con sé. Anche Enea si sente chiamato a un compito, che non si ferma però a una sola persona, ma si estende a tutta la collettività. Enea sa che la vita di un essere umano e anche di una società dipende dalle memorie individuali e collettive che una società si porta dietro: senza la memoria di ciò che è stato non ci potrà essere un futuro, da quella dipende l'identità di un gruppo, di una comunità. Se Anchise resta a Troia e muore, brucia non solo lui, ma tutto quello che è stato, così Enea, caricandosi sulle spalle l'anziano padre, si carica tutta la memoria della sua città. Il destino tragico, drammatico di Edipo è vicino al dramma di ogni singola persona. Enea è meno tragico, meno drammatico di Edipo, gli manca il tormento interiore, il dissidio, ma non è un personaggio piatto. In lui è forte il dissidio tra il compito di un individuo nella società e le sue emozioni, la sua vita personale. Se Enea fosse rimasto da Didone, avrebbe avuto dei figli, ma non avrebbe dato una patria alla sua gente. Enea abbandona Didone perché capisce che la sua vita non è limitata alla sua felicità personale. L'amore è una passione, ma anche amare il proprio popolo, avere una missione, è una passione. Lui non ha il coraggio di lasciare i suoi compagni lì, perché vuole che i suoi abbiano una patria e per questo rinuncia all'amore con una donna meravigliosa di cui lui stesso è innamorato. Ci sono momenti in cui una persona deve scegliere ed Enea sceglie il suo popolo, le memorie della sua città. L'individuo è parte di una comunità più grande, ha un ruolo nella società in cui vive: in particolare, chi detiene il potere ha maggiori responsabilità verso gli altri. Edipo cerca di sprofondare nelle sue contraddizioni e dimenticarsi di essere il re di Tebe. La differenza tra Edipo ed Enea rappresenta bene la differenza tra la cultura greca e quella romana: da un lato la capacità di affermazione, l'individualismo spinto all'estremo dell'eroe greco, sempre alla ricerca di gloria e onore, dall'altra un personaggio collettivo, un eroe che si fa carico di tutta la comunità. Enea è il simbolo stesso della cultura romana: i Romani temevano fortemente l'emergere dell'individualismo.
Quale messaggio si augura possa arrivare a coloro che avranno il piacere di leggere questi suoi libri?
Negli autori classici possiamo trovare una parte di noi stessi. I classici non riguardano il passato, ma il futuro: hanno costruito la nostra civiltà, sono i nostri compagni di strada che non dobbiamo dimenticare, sono le nostre radici, le nostre ancore. Noi studiamo il passato perché vogliamo creare un futuro: senza il passato non può esistere il futuro, così come senza la memoria non esiste una persona. I classici ci portano a contatto con valori che sono validi adesso e saranno validi sempre, in quanto sono la nostra memoria. Ecco, mi auguro che arrivi questo messaggio.
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