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venerdì, 07 aprile 2017 21:29 |
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Francesca Bianchi
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FtNews
ha intervistato Erika Maderna, ricercatrice ed autrice, laureata in Etruscologia e Archeologia Italica all’Università di Pavia.
Nel corso della nostra bella conversazione, la studiosa ci ha parlato dei suoi due ultimi libri: Medichesse. La vocazione femminile alla cura (Aboca Edizioni, 2012), un omaggio al contributo straordinario di medichesse, ostetriche, mammane, levatrici, herbarie, streghe al sapere medico, erboristico e cosmetico della tradizione occidentale, e Le mani degli Dèi. Mitologie e simboli delle piante officinali nel mito greco, un libro che guida il lettore attraverso gli archetipi mitici e simbolici dei fiori e delle piante officinali.
Animata da una straordinaria passione per la ricerca nell'ambito di argomenti inerenti la riscoperta e la valorizzazione dell'intima natura femminile, la Maderna ha insistito molto sull'istinto viscerale alla cura insito in ogni donna, ribadendo più volte la necessità di recuperare il senso del sacro e di ristabilire una connessione con la natura e con tutte le sue creature, al fine di ricevere nutrimento sia per il fisico che per lo spirito. Solo così potrà esserci un futuro sostenibile per il genere umano.
Quando ha iniziato ad interessarsi di antica spiritualità femminile collegata al culto della Dea Madre, dedicandosi alla riscoperta del ruolo fondamentale che le donne ricoprivano in quasi tutte le antiche civiltà?
Alcuni anni fa ho cominciato ad appassionarmi di alcuni aspetti della tradizione sapienziale femminile. L’anello di congiunzione tra i diversi approfondimenti che ultimamente hanno caratterizzato il mio lavoro di ricerca è la conoscenza della natura e della materia come parte fondamentale del sapere delle donne. A livello simbolico, questo connubio ha forgiato l’immaginario del femminile ed è stato un grande alleato della storia e della cultura delle nostre antenate.
Nel 2012 ha dato alle stampe Medichesse. La vocazione femminile alla cura, un libro in cui ripercorre una storia della medicina al femminile, ricostruendo la vita di donne troppo spesso snobbate dalla storia e dipinte a tinte fosche dalla cultura patriarcale. Quanto e in che modo gli archetipi femminili hanno influito sull'immaginario della donna curatrice?
Il substrato archetipico è molto forte, perché prende vigore dalle più antiche figure di divinità taumaturgiche, che nell’area mediterranea sono prevalentemente femminili. Queste dee hanno trasmesso un lascito culturale forte alle sacerdotesse di quegli stessi culti, che hanno in seguito custodito e tramandato conoscenze percepite come “rivelate”. Troviamo traccia di questi modelli arcaici nel ricco immaginario del mito, dove ricompaiono con sembianza di ninfe, semidee, maghe, figure accomunate da un’intrinseca conoscenza della vis curativa della natura. Sono le cosiddette pharmakìdes dei poemi omerici: Circe, Elena, Calipso, Medea. Donne sapientissime che conoscono il potere del phàrmakon, la sua natura salvifica, ma anche distruttiva, il suo potere metamorfico, che è veicolo di mutamento, rigenerazione, guarigione.
Chi era e a cosa presiedeva la Potnia, questa ancestrale divinità che nel primo capitolo Lei definisce come Dea, maga e strega?
La cosiddetta Potnia è, appunto, una manifestazione primitiva dell’archetipo femminile legato alla Natura: una grande dea madre, signora delle piante e degli animali, accogliente e crudele al contempo, portatrice di vita e di distruzione, materna e indifferente. In lei si raccolgono tutte quelle contraddizioni che, in una fase successiva del sentire religioso, verranno ripartite tra le molte divinità femminili delle religioni politeiste. Il retaggio di questa divinità primordiale non ha mai smesso di occupare l’universo simbolico delle donne, e ne ha accompagnato il percorso anche nei suoi momenti più bui; la sua eco risuona nelle parole di Marija Gimbutas, la celebre archeologa lituana, quando ricorda le persecuzioni delle curatrici e i processi per stregoneria, sostenendo che la detronizzazione di questa formidabile dea, la cui eredità fu raccolta da levatrici, profetesse e guaritrici, le migliori e più coraggiose menti del tempo, è segnata dal sangue ed è la maggiore vergogna della Chiesa cristiana.
Perché, secondo Lei, le donne hanno una naturale vocazione alla cura?
Agisce sicuramente un istinto viscerale, legato alla difesa della prole, accanto al quale, tuttavia, convive un aspetto antropologico e culturale importantissimo, comune a tutte le civiltà antiche, nelle quali le donne hanno assunto un ruolo più statico all’interno delle comunità, approfondendo i saperi legati alla raccolta delle piante salutari e commestibili, alla loro trasformazione, conservazione e somministrazione. Le conoscenze farmaceutiche e gastronomiche si sono sviluppate di pari passo, intrecciando modalità e intuizioni. Mentre gli uomini si allontanavano dal villaggio per cacciare o per combattere, le donne si assumevano la gravosa responsabilità di occuparsi di bambini, anziani e ammalati, sviluppando attitudini di osservazione e di pratica empirica, che col tempo si sono strutturate in ripetizione di gesti e conoscenze.
Chi erano le medichesse e cosa caratterizzava la pratica e il sapere di cui erano detentrici? Che percorso professionale seguivano queste donne per esercitare la professione medica?
Le medichesse erano donne che curavano altre donne, ma non solo. Le hanno chiamate con molti nomi: ostetriche, mammane, levatrici, herbarie, streghe. Praticavano una medicina empirica, acquisita attraverso la trasmissione orale e l’assistenza alle sagge più anziane. Spesso erano analfabete e, a differenza dei medici maschi, non conoscevano la tradizione dei padri della medicina. Sapevano, però, dosare con sapienza herbae et cantus, il potere officinale delle piante e la parola incantatoria, ed erano abituate a un contatto molto stretto col paziente e con la malattia: erano medichesse ed infermiere al contempo e hanno contribuito a sviluppare una visione “di genere” della medicina che prevede sensibilità e vicinanza, presenza e parola consolatoria, capacità di osservazione, rispetto paziente dei tempi della natura. Alcune imparavano il mestiere assistendo i medici uomini della famiglia, padri o mariti, e arrivavano ad acquisire una padronanza del mestiere che consentiva loro di proseguire l’attività professionale anche autonomamente, con il pieno riconoscimento delle comunità.
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L'esistenza di medici donna è attestata dalle fonti antiche? Chi è stata la prima medichessa di cui abbiamo notizia?
Probabilmente il primo nome di donna medico giunto a noi è quello di Merit Ptah, vissuta in Egitto intorno al 2700 a.C.; purtroppo non sappiamo altro di lei, come di tante altre medichesse di cui conosciamo l’esistenza grazie al fortuito ritrovamento delle iscrizioni funerarie che ne ricordano il nome e la professione, oppure alla fugace citazione di un’opera perduta. In verità la storia più antica della medicina femminile si alimenta di presenze silenziose e discrete, che la parola scritta non ha saputo, o voluto, consegnare alla memoria dei posteri.
Sono arrivati a noi trattati scritti da donne dedite all'arte medica?
Pochissimi, purtroppo, soprattutto se consideriamo le epoche più antiche, ma fondamentali per tracciare un percorso storico. Il trattato femminile più antico che possediamo è quello di Metrodora, un’ostetrica bizantina vissuta nel VI secolo d.C., che inaugura la letteratura medica delle donne, consegnandoci un documento fondamentale per lo studio della trattatistica femminile. Il contributo successivo sarà quello della medichessa salernitana Trotula de Ruggiero, che, intorno al XI secolo, ebbe eccezionalmente accesso all’insegnamento accademico e produsse un corpus di tre trattati dedicati alla medicina femminile che godette per secoli di un successo straordinario, circolando in diverse traduzioni in molti paesi europei.
Quale professionista dell'arte medica L'ha colpita in modo particolare?
Certamente Ildegarda di Bingen, che è una figura di grande levatura, per densità filosofica e capacità di elaborazione di un concetto di salute che ancora oggi risulta di forte attualità. Difficile, quasi impossibile, racchiudere il suo contributo in una definizione: Ildegarda è stata una santa visionaria, ma anche curiosa indagatrice della natura, artefice di un’esplorazione del concetto di cura che chiama a raccolta il ruolo del mondo vegetale e minerale, la musica, il potere della preghiera; senza trascurare la vitalità prorompente di quella che la santa chiamava viriditas, il potere taumaturgico di tutto ciò che ha qualità generativa. E, all’interno dei suoi interessi scientifici, un posto speciale lo riveste proprio la donna, con il suo corpo, la sua psiche, il suo spirito, con le sue peculiarità caratteriali, la ricerca di un equilibrio affettivo e di un’intesa sessuale soddisfacente con il proprio compagno. Non stupisce che oggi intorno a questa figura stia fiorendo un interesse crescente, tardiva riparazione a secoli di indifferenza.
A quali fonti ha attinto nella fase di ricerca del materiale per la stesura di questo libro?
Quando posso cerco di consultare i testi originali. Così ho fatto per il trattato di Metrodora sulla medicina delle donne, per quelli di Trotula de Ruggiero e per il trattato Cause e Cure di Ildegarda di Bingen, oltre che per le ricette cosmetiche di Isabella Cortese e Caterina Sforza. Nel mio libro ho voluto proporre una scelta di ricette e testi significativi estrapolati da questi trattati, per dare una rappresentazione a più voci del contributo “letterario” delle donne medico del passato.
Nel libro un intero capitolo è dedicato alla visione filosofica della medicina. Cosa si intende con questa espressione?
Ho utilizzato questa espressione proprio nel presentare la figura di Ildegarda di Bingen, che ha avuto il merito importantissimo di elaborare una riflessione sulla salute umana che possiamo a tutti gli effetti definire, appunto, filosofica, poiché si sviluppa su una visione olistica dell’essere umano e del suo stato di benessere. Un approccio illuminato e modernissimo, che fa di Ildegarda un personaggio di rilevanza eccezionale nella storia della medicina, e non solo di quella femminile.
Si sofferma a lungo anche sull'alchimia, esaminando approfonditamente la figura di Maria l'Ebrea e di Cleopatra. Da dove ha origine lo stretto rapporto tra le donne e la scienza alchemica?
Ha origine dalla conoscenza profonda della natura, dall’abitudine atavica a manipolarla e a trasformarla: un presupposto fondamentale per l’alchimista, che è maestro di sublimazione e nobilitazione della materia prima. Le figure di Maria l’Ebrea (colei che per tradizione ci avrebbe lasciato in eredità la tecnica ancora oggi definita “bagnomaria”) e di Cleopatra, probabilmente appartengono più al mito che alla storia, ma ci testimoniano la convinzione che all’origine di questa arte complessa e particolarissima fosse plausibile trovare due donne. Non a caso tra le definizioni dell’arte alchemica troviamo anche quella di opus mulierum: un lavoro da donne!
Ad un certo punto della storia umana si passò dalla visione della mulier sancta ac venerabilis alla visione foemina instrumentum diaboli, per dirla con le parole di Tertulliano. Quando iniziò ad insinuarsi il sospetto che il sapere femminile si alimentasse di una dottrina occulta, esoterica, volta a sovvertire l'ordine naturale dell'universo?
Molto prima di quanto siamo soliti ritenere. Già Tertulliano e i primi apologeti cristiani attingevano a un immaginario ben radicato nelle culture classiche: prima quella greca, con i suoi picchi di fastidiosissima misoginia, e poi quella romana, la cui letteratura ci propone una vasta iconografia di streghe “modernissime”, negromanti, adepte di Ecate e frequentatrici della notte e degli inferi. La dualità è il segno distintivo della definizione del femminile: nel mondo cristiano la santa e la strega rappresenteranno i due estremi di questa percezione, apparentemente inconciliabili, in realtà vicinissimi.
Quando e perché il ruolo di guaritore è diventato prettamente maschile?
Medicina maschile e femminile hanno sempre convissuto, affiancandosi in percorsi paralleli. Contrariamente a quanto si può pensare, le epoche più antiche sono state più tolleranti nei confronti della presenza delle donne in questo campo. In seguito, con il rafforzarsi del sistema della formazione accademica, delle licenze e delle università, le donne hanno perso gradualmente terreno, rimanendo escluse dal sistema ufficiale e dal riconoscimento di una propria professionalità. La medicina ufficiale, a questo punto, ha intrapreso una strenua battaglia ideologica contro le guaritrici popolari e le loro superstizioni magiche, che tuttavia, per lungo tempo, hanno continuato a riscuotere la fiducia delle classi meno colte.
Come è cambiato il concetto di guarigione nella società attuale?
I concetti di malattia e guarigione hanno perso la loro sacralità e il loro mistero per entrare nella sfera di controllo del logos e della scienza. Anticamente l’arte di curare era un dono, un talento, generato da un contatto profondo con la divinità. La raccolta delle piante officinali e la composizione dei farmaci erano considerati atti liturgici e anche la malattia era valutata nella sua valenza simbolica, e con atti e parole simboliche spesso curata.
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Sempre nell'ambito dello stretto rapporto tra il mondo femminile e la cura, lo scorso anno ha pubblicato Le mani degli Dèi. Mitologie e simboli delle piante officinali nel mito greco. Come e quando ha maturato l'idea di scrivere un libro in grado di guidare il lettore attraverso gli archetipi mitici e simbolici dei fiori e delle piante officinali, ripercorrendo le leggende relative a questi potenti strumenti salvifici?
Sono state proprio le figure archetipiche incontrate lungo il percorso di Medichesse a catturarmi al punto da spingermi a rituffarmi nell’universo del mito. Le mani degli dèi attinge a piene mani dai simboli e dai significati profondi dell’universo vegetale, e ancora una volta, c’è molto di femminile nel paradigma di una natura “mater”, che partorisce dal suo grembo tellurico piante, erbe e fiori, strumenti potenti di guarigione. Mani che portano aiuto, come suggerisce il titolo.
C'è stata davvero un'epoca della storia umana in cui le piante erano considerate divinità e venerate come tali?
Sì, e sono molte le fonti antiche che lo attestano. Tra queste, anche alcune preghiere alle erbe: invocazioni di grande forza poetica, che forse venivano recitate al momento della raccolta dei semplici, per attivarne la vis officinale. Poiché la pianta offre se stessa all’uomo al momento della raccolta, morendo nella sua forma vegetale per trasformarsi in farmaco salvifico, il suo sacrificio non poteva non ispirare profonda devozione e rispetto.
Dedica un intero capitolo al rapporto che da sempre ha legato gli uomini agli alberi, sostenendo che le foreste siano state i primi templi dell'umanità in molte culture antiche. Come si spiega questa forte venerazione nei confronti degli alberi?
Le colonne dei templi non ricordano forse gli alti fusti di una foresta inviolata? Molte culture antiche credevano che il genere umano fosse stato generato dagli alberi. Boschi e selve erano luoghi arcani, dove l’uomo percepiva la propria insignificanza al cospetto della natura, e dove il sentore della presenza divina suscitava timore panico. Abbattere un albero equivaleva a violarne lo spirito, e dunque ad attirarsi la vendetta del dio o della ninfa abitatrice: al momento dell’abbattimento, infatti, era richiesta la presenza di un sacerdote, che con parole sapienti invitasse la presenza numinosa ad abbandonare la corteccia. Nel mito greco, poi, numerosissime sono le storie di metamorfosi vegetali: tutte sono allegorie della precedente venerazione delle forme arboree come teofanie e nascondono significati profondi e complessi intrecci tra natura vegetale, vicenda umana e vis medicinale della pianta.
Chi erano le Dominae Herbarum? E le Dee Pharmakìdes?
Sono figure dell’immaginario di eccezionale potenza; sono tutte le divinità femminili eredi della figura matriarcale della Potnia, la Signora della Natura. Nelle mitologie classiche si sono incarnate nelle maghe conoscitrici di filtri e di erbe magiche, come Circe e Medea, o nelle dee olimpiche, che rappresentano frammenti della psiche e della natura femminile e sono patrone di piante e fiori a loro consacrati secondo criteri di vicinanza archetipica. Il legame con la cura è una delle cifre distintive di queste figure, anche se ciò non sempre emerge palesemente e spesso si manifesta in modo ambiguo. Pensiamo, per esempio, alla figura di Medea, che certamente è il prototipo di tutte le streghe moderne, ma possiede un nomen/omen denso di significato, che riporta alla radice del verbo greco “mèdomai”, che possiamo tradurre con 'escogitare', 'macchinare', ma anche con 'occuparsi di', 'prendersi cura'. La medesima integrazione di opposti, e la stessa semantica etimologica, la troviamo nel nome Medusa: demone terrificante, capace di pietrificare, annichilire in un istante il soffio vitale, ma anche di rigenerare e riportare alla vita con una goccia del suo sangue.
Chi era incaricato della raccolta e della lavorazione delle erbe?
In origine la raccolta dei semplici era affidata ai sacerdoti o ai cosiddetti rizotomi, che conoscevano le liturgie di raccolta, le invocazioni e i gesti scaramantici che consentivano di rimanere illesi nella raccolta delle piante venefiche. Gli autori classici ci descrivono talvolta minuziosamente questi riti, che comprendevano una purificazione preliminare, la scelta accurata del giorno e dell’ora di raccolta, il punto cardinale verso cui volgersi al momento del taglio dello stelo, la giusta invocazione e la giusta offerta. Il foro lasciato nel terreno dallo stelo dell’erba medicinale poteva essere riempito con offerte e doni: un tributo a quello spirito divino che oggi chiamiamo principio attivo.
A quali fonti ha attinto nella fase di ricerca del materiale?
Ho cercato di risalire ai testi originali dei miti che ho raccolto, per essere certa di non confondere le fonti con le tradizioni folkloriche che nel tempo si sono impiantate su quegli stessi racconti, le quali, pur essendo ricche di fascino, testimoniano passaggi più recenti dell’immaginario. Talvolta i risvolti più illuminanti dei miti botanici si nascondono, più che nelle storie celebri, nelle chiose nascoste, in alcune citazioni frammentarie di autori minori. Ed è proprio in questo lavoro paziente di ricerca che ho trovato sorprese inaspettate.
Ultimamente si sta riscoprendo sempre di più il potere terapeutico della natura e delle sue erbe. Come possiamo ristabilire una connessione con la natura, cercando di sentirci una sola cosa con le sue bellezze e vivendo in comunione con tutte le sue creature, proprio come facevano le nostre antenate?
E’ fondamentale, credo, recuperare un po’ di quel senso del sacro che è stata la prima certezza dei nostri antenati. Oppure, se proprio ci risulta difficile, ragionare in termini “egoistici”, nella consapevolezza che non potrà esserci un futuro sostenibile per l’uomo, se non nel rispetto dell’ambiente e della natura, che è la nostra casa.
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