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Il canto e il veleno: bucolici greci minori

lunedì, 30 agosto 2021 07:22

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Dal nostro inviato
Francesca Bianchi
FtNews ha intervistato il prof. Francesco Bargellini, curatore, per la collana "Classici smarriti" di InSchibboleth Edizioni, del libro Il canto e il veleno. Bucolici greci minori. Nel volume, la cui ampia prefazione è curata dal poeta e latinista Alessandro Fo, sono raccolte le opere di Mosco, Bione e altri anonimi. Il prof. Bargellini - che ha all'attivo un dottorato in Filologia Greca e Latina presso l'Università degli Studi di Firenze e oggi insegna materie letterarie in un liceo della provincia di Pistoia - ha spiegato come è nata l'idea di pubblicare un libro dedicato ai bucolici greci minori, autori in genere poco noti al pubblico dei non specialisti. Ha discusso di quelle caratteristiche del carme bucolico che possono autorizzare a parlare di un genere letterario a tutti gli effetti, di cui Teocrito di Siracusa è considerato l'inventor, sostenendo che nell'opera dei bucolici greci minori è possibile individuare i motivi fondanti della bucolica di sempre: il canto d'amore, un contesto naturale di lieve dolcezza in cui trovare rifugio dalle tempeste del presente, quasi un mondo alternativo al presente. Ha preso in considerazione le figure di Mosco e Bione, chiarendo bene il ruolo che hanno avuto all'interno della tradizione bucolica e l'influsso esercitato su autori come Catullo, Virgilio, Ovidio, Tasso, Marino, Leopardi.
Nel corso della nostra intervista, lo studioso si è soffermato sull'Epitafio di Adone, un gioiello del medio Ellenismo, argomentando i motivi per cui non è improprio applicare a questo carme di Bione le categorie di "decadentismo" e "barocco". Ha parlato anche dell'anonimo Epitafio di Bione, in cui è diffusamente presente il riferimento alla sicilianità del canto. Nelle parole di Bargellini l'invito a riscoprire il valore e l'importanza della relazione e del paesaggio e a rifugiarsi, di tanto in tanto, nella dimensione del sogno, di cui i bucolici sono generosi dispensatori, come e più di altri poeti.

Prof. Bargellini, per la collana "Classici smarriti" di InSchibboleth Edizioni ha curato Il canto e il veleno. Bucolici greci minori, un libro in cui sono raccolte le opere di Mosco, Bione e altri anonimi. Come e quando è nata l'idea di pubblicare un libro dedicato ai bucolici greci minori? Perché nel titolo si parla di "canto" e "veleno"? A cosa si fa riferimento?
Avevo cominciato a tradurre questi poeti molti anni fa, per mero passatempo e però attratto, in maniera quasi necessitante, dall’Epitafio di Adone di Bione di Smirne, poemetto nel quale riscontravo un’esuberanza emotiva in senso tragico che si confaceva bene alle mie corde. Tommaso Braccini, direttore della collana degli “smarriti” e mio amico da sempre, conosceva questo precedente e mi propose di utilizzarlo come nucleo per una pubblicazione ad hoc. Quanto al titolo, prende spunto da un passaggio dell’Epitafio di Bione, scritto, a quanto pare, da un allievo italico del poeta citato sopra: nel testo si fa parola di un veleno che, assunto volontariamente o ingerito per opera di un misterioso attentatore (c’è una questione filologica da cui dipende la cognizione del fattaccio), avrebbe ucciso Bione senza, a sorpresa, venire addolcito dalla soavità del suo canto. Ecco, su un piano diciamo empirico, l’origine del titolo; e tuttavia bisogna intendere questa associazione di canto e veleno strutturale, per metafora, a tutto il mondo della bucolica, segnato dall’assidua compresenza del dolore (che derivi da un lutto o da un amore infelice) e del suo riscatto a mezzo, per l’appunto, del canto, della poesia.

Lei opera subito una distinzione tra termini spesso considerati affini, quasi sinonimi: poesia bucolica, idillio, Arcadia, ecloga. A cosa si riferiscono, in realtà, questi termini?
“Bucolico” è il genere poetico di cui i minori al centro del libro rappresentano le estreme propaggini greche, prima dell’operazione virgiliana a Roma (e si dirà subito che il termine “ecloga”, grecamente “pezzo scelto”, designa ciascun componimento delle Bucoliche di Virgilio). Il termine “idillio” nell’antichità indicava uno qualsiasi dei componimenti attribuiti a Teocrito, che tuttavia non aveva scritto, come noto, solo carmi bucolici, ma anche poemetti d’altra sorta; pare che il termine, per sé, designasse appunto un elaborato poetico di vario argomento, oltre che di piccole dimensioni. Il fatto che nel tempo il concetto di “idillio” si sia praticamente sovrapposto a quello di “bucolica” – per tacere di quel che oggi significa la parola nel linguaggio corrente – certifica soltanto il peculiare successo di quella parte della produzione teocritea, divenuta quindi, nella percezione comune, “idillica” per antonomasia. “Arcadia” è la regione del Peloponneso che si fa, attraverso Virgilio, teatro quasi normativo delle vicende bucoliche, le quali a quel punto decisamente si sottraggono a qualunque istanza realistica per rappresentare, contro la Storia, uno spazio incantato e un eden perduto.

Quali sono le peculiarità del carme bucolico che ci autorizzano a parlare di un genere letterario a tutti gli effetti, quello della poesia bucolica, appunto, di cui Teocrito di Siracusa è considerato l’inventor?
La mia linea interpretativa fa della bucolica un genere con i suoi contrassegni, contro parte della critica che non le riconosce uno statuto unitario e distintivo, salvo il metro e la lingua. Credo invece che il primo bucolico della letteratura, il siracusano Teocrito, avesse già, in tal senso, le idee chiare: si ricava dalla sua opera che un carme bucolico doveva rappresentare dei boukòloi, dei pastori (non necessariamente bovari), cimentarsi, in un contesto talora di sfida, in canti soprattutto amorosi, entro una cornice naturale campestre di amena dolcezza e animata da dèi inclini al commercio con gli uomini – come una pausa, ma di gran significato, in una vita precisamente scandita da abitudini e attività cicliche; essa stessa, in effetti, prassi ricorrente e tipizzante.
Pieter Paul Rubens, La morte di Adone. Olio su tela, 1614 c. Jerusalem, Israel Museum
Prima dell'esperienza teocritea, in quali autori possiamo trovare elementi bucolici?
Anche nell’Iliade, nella famosa descrizione dello scudo di Achille del diciottesimo libro, assistiamo a una scena pastorale. Personaggi-chiave del genere, del resto, come il mitico pastore Dafni e il Ciclope innamorato (rispettivamente al centro del primo e dell’undicesimo Idillio di Teocrito), compaiono prima della codificazione teocritea, ma si tratta di elementi sparsi che non costituiscono nemmeno alla lontana il genere che prende le mosse davvero nel III a. C. grazie al Siracusano.

Dopo Teocrito, invece, quali caratteristiche assunse la bucolica? Quali sono le differenze principali tra Teocrito e i suoi continuatori?
In Teocrito sono indubbiamente presenti elementi realistici, quanto alla rappresentazione della vita dei pastori e dell’ambiente campestre, che in seguito sbiadiranno a vantaggio di quell’atmosfera edenica da rifugio “antistorico” di cui parlavo in precedenza – un passaggio decisamente propiziato proprio dalla bucolica minore post-teocritea di cui si tratta nel libro. È bene, tuttavia, non sopravvalutare, a mio parere, neppure il realismo di Teocrito, perché quel che si è individuato come peculiare del genere appare piuttosto il frutto di un intervento poetico inteso a proporre, della realtà, uno spaccato tutt’altro che obiettivo e che già vira al programmaticamente ameno e al sogno. Per tornare poi ai continuatori: è vero che si riscontrano, rispetto all’inventor, un certo manierismo e, se vogliamo, un’attenzione pressoché esclusiva alla tematica erotica, oltre al dato straordinario – ma appunto emblematico, credo, di una sopraggiunta “maniera” – dell’inclusione dell’autore, personaggio tra i personaggi, nel proprio stesso mondo poetico, come risulta dall’ anonimo Epitafio di Bione sopracitato e come sembra di capire da alcuni frammenti di Bione stesso.

Mosco e Bione sono definiti bucolici nella voce relativa a Teocrito nella Suda, enciclopedia bizantina del X sec. d.C. Lei nel libro sottolinea come quello che abbiamo di Mosco e Bione non aderisca strettamente alle caratteristiche del genere bucolico, tanto che sarebbe opportuno definire i due autori "idillici" più che "bucolici". Ci spieghi meglio questo aspetto. Quale ruolo hanno avuto Mosco e Bione all'interno del genere bucolico? Dove risiede l'importanza storico-letteraria di questi due autori?
La presenza di Mosco e Bione nella tradizione bucolica è sottile, ma costante: nel mio volume do conto di questa persistenza, da Virgilio, a Tasso, a Marino, senza contare autori di diverso ambito che, testi alla mano, hanno risentito dei Nostri: penso a Catullo, a Ovidio, a Leopardi… Certo, il contributo più importante alla storia delle lettere lo hanno dato traghettando la bucolica teocritea alla stazione, per molti versi definitiva, delle Bucoliche di Virgilio. Quanto alle mie resistenze nel parlare tout-court di bucolici, lo si deve al fatto che il materiale tràdito dei due è solo in risicata parte assegnabile al genere della bucolica come credo lo si debba intendere: il pezzo forte di Mosco è l’Europa, un poemetto mitologico che non ha nulla a che fare con il mondo dei pastori, mentre il capolavoro di Bione, l’Epitafio di Adone, è un compianto con protagonisti divini, dove ugualmente la materia agreste latita, sebbene il modello di base sia il primo Idillio di Teocrito. Certo, poi ci sono le indicazioni degli antichi e ci sono i frammenti, sia di Mosco che di Bione, che in buona misura si possono immaginare come parti di una composizione di impianto bucolico. Però, insomma, un carme pastorale con tutti i crismi obiettivamente non l’abbiamo. Perché allora non parlare di poeti “idillici” anziché bucolici, considerata l’idea, molto ellenistica, di “varietà nella brevità”, che sembra sottesa all’antico eidyllion?

La fama di Bione è legata all'Epitafio di Adone, carme a cui qualche critico ha applicato in maniera del tutto anacronistica le categorie di "decadentismo" e "barocco". Quali sono le sue caratteristiche? C’è qualcosa, nel poemetto, che può rientrare nel genere bucolico, nonostante la sua singolarità?
Premetto di essere un fan di certe applicazioni indebite di categorie, per cui non ho difficoltà a parlare anch’io, per questo carme, di decadentismo e di barocco, fatta salva la specificità di contesto dei termini in questione. Ma per cosa si segnala, essenzialmente, questo gioiello del medio Ellenismo? Per un patetismo sopra le righe, eppure sempre saldamente al di qua del grottesco; per la genuinità di un’ispirazione che mantiene il dettato credibile non malgrado, ma grazie, in effetti, all’estrema tensione emotiva; per il “colore” che prevale in ogni caso e in modo eccezionale sulla “linea”, per usare una metafora pittorica. C’è, nel “gridato” del carme, qualcosa, è stato detto, di poco greco e piuttosto semita, che è poi l’ambito di provenienza del mito di Adone; e in ogni caso un tipo di poesia che contraddice al winckelmanniano concetto della grecità come regno dell’equilibrio e dell’armonia – del che si prende atto, devo dire, con notevole profitto, superando un pregiudizio che continua a tenere banco nell’immaginario comune e rappresenta solo una parte della verità. Nel carme di Bione non ci sono pastori cantanti e manca, pertanto, il primo ingrediente della bucolica canonica; d’altra parte, è talmente evidente il debito del poeta con il primo Idillio (assolutamente bucolico) di Teocrito, in cui il pastore Tirsi racconta della morte del mitico Dafni, che non ha torto chi ha individuato all’interno della tradizione pastorale una linea “funebre” costituita, in successione, dal primo Idillio teocriteo, dall’Epitafio di Adone e dall’anonimo Epitafio di Bione.
prof. Francesco Bargellini - (foto di Asia Bargellini)
Quali sono i modelli letterari a cui ha attinto l'autore di questo carme?
Oltre al segnalato Tirsi di Teocrito, ci sono Le Siracusane dello stesso (Id. 15) per la questione della festa consacrata ad Adone, che il carme bioneo parrebbe voler integrare con una sorta di “sacra rappresentazione”; ci sono rimandi, un po’ larvati, alla poesia del tempo (vedi Nicandro di Colofone: questione decisiva, tra l’altro, per la datazione bionea) e certo palesi influssi dalla tragedia, come chiarì Marco Fantuzzi in una sua fondamentale edizione del testo. Per il resto – cioè il grosso, vale a dire il tipo di poesia espressa in questo carme –, bisogna ammettere che non ci sono nella letteratura greca veri e propri precedenti. Se vogliamo ancora adoperare (e lo vogliamo) le categorie di “decadenza” e di “barocco”, mi vengono in mente alcuni, pochi poeti che vi si possono ricondurre, e tuttavia il tipo di pathos profuso dal Nostro e la misura in cui viene profuso continuano a sembrarmi eccezionali.

Si suppone che l'origine della poesia pastorale derivi da tradizioni folkloriche. Nei carmi raccolti nel libro c'è qualche elemento che avvalora questa tesi?
La fase della storia della bucolica rappresentata da Mosco, Bione ed epigoni sembra piuttosto lontana da motivi folklorici che pure dovevano essere il presupposto dell’operazione di Teocrito: troppo “navigata”, troppo votata alla maniera, all’artificio – il che non depone affatto, pregiudizialmente, contro questa poesia. Gli stessi casi “metaletterari” di presenza dell’autore nel proprio universo fantastico credo raccontino di un’avventura poetica sempre più slegata dai realia del mondo popolare.

Perché ritiene poco credibile la notizia, attribuibile al grammatico Teone, secondo cui il canto pastorale avrebbe un'origine religiosa legata al culto di Artemide? Come si spiega, secondo lei, questa tesi di Teone? A suo giudizio, neppure ai primordi del canto bucolico fu presente la componente religiosa?
In effetti le notizie cui rimanda Teone circa l’origine della bucolica sono sorprendenti per quanto appaiono aliene rispetto alla configurazione storica del genere. L’unica religione sicura che già da Teocrito sembra animare questi testi è quella della poesia, la cui celebrazione, nella moltiplicazione della funzione autoriale attraverso i personaggi dei pastori, a loro volta poeti, e anche nella capacità attribuita al canto di stornare o addolcire il dolore che comporta la vita, è un vero e proprio elemento strutturale del genere. Quanto alle divinità che sovrintendono all’operazione, tutto sembra andare nel segno di Afrodite e di Eros, inclusa l’eventuale presenza di Pan e deità boscherecce minori, anch’essi coinvolti in vicende d’amore e di per sé emblematici di naturali, carnali pulsioni. Quale ruolo potesse in tutto questo rivestire una dea come Artemide, il cui dominio è, come noto, la castità, mi è davvero oscuro, ma è proprio la preistoria della bucolica, ben poco illuminata, in effetti, dagli sporadici elementi pastorali pre-teocritei, a essere tuttora avvolta nel mistero.

È possibile ricostruire il percorso che dal sikelón mélos del bioneo Epitalamio di Achille e Deidamìa porterà al Sicelides Musae della IV egloga virgiliana?
Tra Bione – ammesso che sia lui, come personalmente credo, l’autore dell’Epitalamio – e Virgilio, il riferimento alla sicilianità del canto, come a dire della sua pertinenza al genere bucolico (certo perché fu siracusano il suo riconosciuto inventor Teocrito), è largamente, direi normativamente presente nell’Epitafio di Bione che già abbiamo citato più volte, un testo che non si sbaglierà a collocare all’inizio del I secolo a.C. Composto, come si legge, da un allievo del nostro Bione e quindi anzitutto legato al suo magistero, questo Epitafio è di fatto una sgargiante esibizione di luoghi comuni della bucolica (situazioni, nomi, elementi naturali, divinità coinvolte…) che sono come ricapitolati prima che il genere si trasferisca a Roma. A questa altezza – se non prima – l’antonomasia di canto siciliano per canto bucolico è già, dunque, perfettamente passata a standard, cui può ben attenersi Virgilio in principio della sua quarta ecloga.

Nel paragrafo “Eterna bucolica”, presente nella sua ricca introduzione, si sofferma sulla storia della bucolica come genere letterario, che andrà avanti almeno fino al Settecento. Cosa intende con l'aggettivo "eterna"? A cosa si riferisce quando parla dell'eternità della bucolica?
L’eternità della bucolica concerne, più che il genere in sé, le fondamentali istanze di cui nel tempo, e in successivi “travestimenti”, esso si è fatto portatore. Continuo a credere che l’evasione rispetto alla Storia sia una tra queste. Si obietterà che nelle Bucoliche di Virgilio la Storia interviene ferocemente nel mondo pastorale – basti pensare alla prima ecloga, con la delicatissima questione delle espropriazioni dei campi seguite alla guerra civile - eppure, se anche non guardassimo alla vicenda con gli occhi del fortunato Titiro, l’impressione che se ne ricava è di una piaga destinata ad assorbirsi. Il regno bucolico è più forte di ogni tentato assalto da fuori, ivi inclusa la sofferenza della vita comune: perché si soffre e si muore, come nella vita, anche nel perimetro del locus amoenus, però consolati dal canto, proprio e altrui, e da tutta una mitizzata, personificata natura disposta a condividere il pianto degli uomini. Quindi l’evasione, l’alterità. Ma non è tutto, benché sia moltissimo. Credo di rinvenire almeno altri due e meno ovvi motivi, che caratterizzano profondamente la bucolica di ogni tempo e ne rappresentano l’essenziale lascito – quello, appunto, eterno; ma chiamo il lettore direttamente a scoprirli, senza fare anticipazioni.

Quanto alla traduzione, quali ostacoli ha incontrato nella resa italiana di questi testi? Che tipo di traduzione ha scelto?
La mia linea è solitamente quella dell’aderenza, del maggior rispetto possibile del dettato originale: dalla puntuale corrispondenza versale al generale mantenimento dell’ordine sintattico del testo di partenza. Ciò detto, i poeti antologizzati presentano voci anche molto diverse di cui si è inteso serbare la specificità, ma è inevitabile che abbia trovato qualcuna più consonante alla mia maniera, dunque più “facile”; e che del resto proprio la mia maniera, il mio personale sentimento di certi motivi e immagini, abbia determinato quegli inevitabili “tradimenti” che sono congeniti al tradurre e cui il traduttore, peraltro, non rinuncerebbe in nessun caso, anche quando si professi, come me, generalmente fedele.

C'è un carme che l'ha colpita particolarmente?
Chi legge avrà capito che ho una particolare simpatia per l’Epitafio di Adone, della cui peculiarità ho già detto; da lì tutto è partito ed è tuttora il testo cui mi sento maggiormente legato. Ma ci sono altrove altre bellezze – talvolta straordinari momenti che “lampeggiano” entro contesti più ampi: penso alla sensualità di alcuni passaggi dell’Europa di Mosco o a lacerti dell’Epitafio di Bione che lo sottraggono, dopotutto, a quell’accusa di grossolanità che la storia della critica gli ha spesso riservato.

Quale messaggio si augura possa arrivare a coloro che leggeranno questo lavoro?
C’è una piccola nota, premessa al volume, riservata ai miei studenti di oggi e di ieri: racconto di avere lavorato a questo libro in piena pandemia, quando poteva apparire almeno ironico occuparsi di una poesia tutta giocata sul piacere della vita – e di una vita regolarmente pervasa d’amore – en plein air, in spazi aperti. Ma quest’ironia si è trasformata per me in memento, e il mio pensiero è subito corso ai ragazzi: non dimentichiamo il valore di ciò che l’emergenza giocoforza ci ha tolto, cioè la relazione e il paesaggio. Appena possibile riappropriamocene, sfuggendo all’obbligazione degli schermi, della vita surrogata.
Per il resto, i bucolici sono generosi di sogni, come e più di altri poeti; e anche di questo c’è sempre esigenza, e se un giorno quest’esigenza venisse a mancare proporrei di coltivarla d’ufficio, tanto mi pare degna di un essere umano. Credo sia abbastanza per ringraziare Mosco, Bione e compagnia per i piccoli gioielli che ci trasmettono, e anche per i loro frantumi.
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