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martedì, 15 settembre 2020 17:25 |
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Il disegno sulla copertina: L'Elicona visto da Tespie, in Edward Dodwell, "A Classical and Topographical Tour through Greece during the Years 1801, 1805, and 1806", vol. I, London 1819 (elaborazione grafica)
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Dal nostro inviato
Francesca Bianchi
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Per FtNews
ho intervistato Luigi Lehnus, già professore ordinario di Filologia classica all’Università di Milano (1989-2015). Recentemente lo studioso ha curato, per la casa editrice Ledizioni di Milano, una edizione italiana de Il monte delle Muse (1924) di Wilamowitz, che costituisce una penetrante interpretazione di Esiodo come profeta “europeo”: profeta di una religione della giustizia che a suo giudizio ha valore ancora ai nostri tempi ed è una creazione tipicamente ellenica. Nel corso dell'intervista il prof. Lehnus - che nella sua carriera si è occupato di lirica greca, poesia ellenistica, poesia dotta latina e di storia degli studi di antichità in Inghilterra e Germania - ha ripercorso le tappe principali della formazione e della carriera dell'illustre studioso tedesco, soffermandosi sui motivi che lo indussero a cimentarsi nella stesura di un saggio dedicato all'Elicona, il monte della Beozia che fu sede del culto delle Muse. Di questo luogo l'accademico fornisce anche una descrizione dal punto di vista naturalistico e paesaggistico e racconta qualche dettaglio in merito ai ritrovamenti portati alla luce dagli scavi archeologici. Non manca di fare un breve riferimento alle tante chiesette e cappelle cristiane disseminate lungo la Valle delle Muse, che in più di un caso rappresentano l’evoluzione cristiana di culti pagani.
Lo studioso si è soffermato con dovizia di particolari sulle principali differenze tra la consacrazione-iniziazione a poeta-profeta di Esiodo e le rivisitazioni letterarie operate da Callimaco, Properzio e Ennio. L'espediente enniano del trasferimento sul Parnaso del sogno di origine callimachea consente al prof. Lehnus di parlare delle principali differenze tra l'Elicona e il Parnaso dal punto di vista culturale e paesaggistico.
Nelle parole del filologo - che nel 2010 ha ricevuto dall’Accademia Nazionale dei Lincei il Premio Antonio Feltrinelli per la Filologia e la Linguistica - l'auspicio che il suo commento al ricco saggio wilamowitziano riesca a mostrare come la scienza dell’antichità, praticata al più alto livello, sappia ancora parlare alla mente dell’uomo moderno: non c’è mondo moderno senza antichità.
Prof. Lehnus, la nuova edizione italiana de Il monte delle Muse (1924), da lei curata per Ledizioni, si apre con una presentazione dell'opera e della figura di Wilamowitz. Può ripercorrere brevemente per i nostri lettori le tappe principali della formazione e della carriera di colui che già i contemporanei considerarono il “principe dei filologi”?
È difficile parlare di Wilamowitz. Non esiste una biografia, e non è un caso. Wilamowitz fu sentito, e probabilmente si avvertì lui stesso, come uomo daimonios, animato da un “demone”, un bisogno interiore che lo incalza a far rivivere quel mondo finito che è l’antichità. «Dobbiamo far parlare gli antichi dando loro il nostro sangue» dice, ricordando Ulisse e Tiresia nell’XI dell’Odissea. E definisce i libri come “carne della nostra carne”. Wilamowitz fu un incantatore. Il suo allievo Karl Reinhardt lo fissa per noi mentre in una delle sue affollate conferenze settimanali appare come un’epifania, col volto glabro, signorile, pallido, dietro la luce concentrata della lampada, e prende la parola nel silenzio generale. Ancora Reinhardt coglie nel segno, quando afferma che Wilamowitz “voleva i Greci nudi”. Il classicismo di Wilamowitz è, nella sostanza ultima, ancora quello per così dire ingenuo della Deutsche Klassik, del filellenismo di Lessing e Winckelmann, di Schiller e di Goethe; ma egli odiava il classicismo come teoria: «Per me – dice – la parola “classico” è un mostro». Voleva i Greci nella loro realtà, nudi appunto, vivi, non idealizzati e tanto meno tipizzati.
Ulrich Friedrich Wichard von Wilamowitz-Moellendorff nacque a Markowitz, in Posnania (nella parte della Polonia allora occupata della Prussia: una specie di California tedesca), nel 1848, e morì a Berlino nel 1931. Nel suo lungo nome c’è gran parte della sua storia. In Wilamowitz c’è la lontana origine polacca della famiglia (dalla città di Grodno, oggi in Bielorussia), e vengono in mente dalle sue memorie l’impossibilità, da un lato, di giocare da bambino coi coetanei polacchi e dall’altro lo scherno dei compagni di scuola tedeschi per quel cognome. Friedrich è la Prussia, il “vecchio Fritz”, quel Federico il Grande il cui ritratto, avvolto nella bandiera bianco-nera prussiana, campeggiava nel corridoio d’ingresso della sua casa ancora molto dopo la fine della monarchia. Wichard è il feldmaresciallo Wichard Joachim Heinrich von Möllendorff, che nell’estrema vecchiaia adottò Arnold Wilamowitz, allora bambino di due anni, futuro padre di Ulrich, con la condizione che ogni erede maschio portasse anche il suo nome. Möllendorff era stato il trionfatore della battaglia di Leuthen contro gli Austriaci nella guerra dei Sette Anni, e fu in vecchiaia lo sfortunato sconfitto di Jena e di Auerstädt. Ma soprattutto Ulrich: come la madre Ulrike, cui si sentì profondamente legato per tutta la vita, e che scelse per lui contro il volere del marito il collegio-ginnasio di Pforte, presso Naumburg, anziché la scuola di cavalleria militare di Brandeburgo. In una lettera del 1929 al collega egittologo Adolf Erman Wilamowitz scrive: "Un’origine famigliare mista è un vero privilegio, che può impartire una buona lezione agli idioti lodatori della razza". Insegnò – e si sentiva anzitutto insegnante – per 111 semestri consecutivi, curò quasi novanta dissertazioni di laurea, corrispose con amici, colleghi, alunni al ritmo di cinque lettere al giorno per tutta la vita. I suoi allievi (faccio qualche nome: Paul Maas, Werner Jaeger, Paul Friedländer, Wolfgang Schadewaldt, Karl Reinhardt, Felix Jacoby, Eduard Fraenkel, Hermann Fränkel, Rudolf Pfeiffer, Otto Skutsch) hanno portato la scienza wilamowitziana nelle università del mondo.
Provo a elencare qualche tema privilegiato dei suoi studi: la riabilitazione di Euripide e della poesia ellenistica, la nuova metrica, la fulminea velocità di reazione di fronte a ogni nuovo testo epigrafico o papiraceo (si pensi alla ricostruzione di Aristotele antiquario subito dopo la scoperta della Repubblica degli Ateniesi), l’analisi della tradizione biografica greca, la storia antica del testo dei tragici, dei comici, dei lirici e dei bucolici greci. Ci si chiede spesso quale sia stato il suo contributo più grande. Probabilmente, la particolare “grandezza” di Wilamowitz sta in un concorso di fatti: il livello dell’esegesi, la quantità e qualità dei problemi affrontati, il dominio perfetto della filologia testuale, la tensione della scrittura, il fascino personale, il ruolo rivestito nell’accademia tedesca e riconosciuto dagli studiosi stranieri suoi contemporanei.
Cosa indusse Wilamowitz a concentrare la sua attenzione su un aspetto della religione e della cultura greca più antiche, cimentandosi nella stesura di un saggio dedicato all'Elicona, il monte della Beozia che fu sede del culto delle Muse? Con quali finalità scrisse questo saggio di circa venti pagine?
Wilamowitz coltivò per tutta la vita un interesse preminente per la religione greca. Lui, che da un lato dichiarava “fidem profiteor Platonicam” e dall’altro riconosceva “Christiana cor meum numquam intravere” (“il cristianesimo non è mai penetrato nel mio cuore”), trovava nella fede degli Elleni, nei loro dèi, l’espressione più autentica dell’originalità di quel popolo. Il saggio sull’Elicona “monte delle Muse”, che definirei di alta divulgazione, è solo un momento minore, se non minimo, della sua visione del mondo sacro dei Greci, fatto di una particolare intersezione tra umano e divino sullo sfondo di una natura varia, a tratti ridente a tratti severa, dove si può essere soli, ma a poca distanza dalla divinità. L’Elicona non ha a che fare con la saga eroica, non è connessa con Omero, e anche per questo si presta bene a illustrare l’incontro, altamente produttivo per la nascente cultura europea, tra un uomo alle prese col proprio genio e sensibilità e un gruppo di dee che scendono dall’alto, che possono apparire come voci nella nebbia, e che insieme a invenzioni simili al vero sanno svelare la verità del cosmo. Wilamowitz afferra l’occasione e con una inimitabile miscela di intuito e scienza rivela ai lettori della Deutsche Rundschau, la rivista colta che accoglie l’articolo, il suo personale incontro col poeta Esiodo, con la natura ridente e impervia del sacro monte, e con la rigogliosa produzione letteraria (ellenistica, romana, moderna) che del dialogo tra il poeta e le Muse si impadronì giocosamente, fino a travisarlo. La scienza antichistica («la mia scienza» – dice a un certo punto Wilamowitz) è qui per restituirci quel mondo che la storia si era incaricata di dissolvere e svuotare.
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In quale contesto si colloca il primo incontro dello studioso con le Muse dell'Elicona? Come si presentava il luogo dal punto di vista naturalistico e paesaggistico?
Per Wilamowitz è fondamentale la conoscenza dei luoghi per coglierne la suggestione e capire a fondo quanto essi abbiano ispirato l’autore antico, ma egli mostra anche un sistematico scetticismo nei confronti dell’archeologia preistorica e non fece in tempo a capire l’importanza dell’archeologia egea: non comprese mai Schliemann e non ebbe particolare interesse per la civiltà minoica portata alla luce da Sir Arthur Evans.
Nel Monte delle Muse tutto è realtà, compreso l’incontro di Esiodo con le dee dell’Elicona e la sua iniziazione a poeta e profeta, nonché a prima voce europea. Wilamowitz mescola le testimonianze degli antichi, soprattutto il periegeta Pausania, con la sua propria esperienza personale. Aveva visitato il luogo poco più che quarantenne nel 1890 insieme ad alcuni allievi; arrivata al tempio delle Muse, a metà salita, l’allegra brigata si era lasciata scoraggiare dalla neve sulla cima e sedurre dal buon vino resinato locale, e anziché cimentarsi nella dura ascesa (e ascesi) aveva preferito fare una siesta e rinunciare. Adesso, siamo nel 1924, l’anziano studioso rimpiange di aver perso quell’occasione e mette in campo tutta la sua scienza per ricostruire l’aspetto e la storia del luogo, pur restando consapevole che nulla potrà sostituire la mancata “autopsia”.
Il paesaggio della Valle delle Muse, sul fianco orientale dell’Elicona, è ricco di vegetazione – non mancano mirto e alloro, piante particolarmente care a Wilamowitz, che le ritiene simboliche del paese degli Elleni – e di pascoli. Un pozzo d’acqua limpida e perenne si trova poco sotto la cima: è la fonte Ippocrene, scaturita da un colpo di zoccolo del cavallo alato Pegaso, ipostasi di Posidone, dio non solo del mare, ma anche delle profondità della terra, da lui periodicamente scossa, e delle acque sotterranee. Quel pozzo, che è tuttora lì da almeno tremila anni, Wilamowitz non lo vide, ma sa che le sue acque sono invisibilmente connesse con la fonte Aganippe e il fiume Permesso, che più a valle irrigano il santuario delle Muse eliconie.
Quando iniziarono gli scavi archeologici nella zona? Cosa portarono alla luce?
Un altare monumentale, un basamento per le statue delle nove Muse, ognuna accompagnata da un’iscrizione in versi, un portico, un teatro. Nel santuario si celebrarono fin dentro l’età imperiale romana importanti agoni musicali, mentre più in basso la città di Tespie, patria della famosa cortigiana Frine, era insigne per il culto di Eros. I primi scavi scientifici furono condotti da archeologi francesi guidati da Paul Jamot tra il 1888 e il 1891; giunto a parlare del luogo, Wilamowitz ricorda che "i Francesi hanno condotto degli scavi ma, come spesso fanno, in maniera non conclusiva né accurata, e una pubblicazione adeguata manca affatto". Nella seconda metà del Novecento l’archeologo francese Georges Roux ha ampiamente rimediato a queste lacune. Nei decenni tra il 1870 e il 1914 i rapporti tra l’École française di Atene, la più antica tra le scuole archeologiche europee in Grecia, e la locale sezione del Deutsches Archäologisches Institut erano stati di tesa competizione (i Francesi avevano Apollo, cioè Delfi e Delo, i Tedeschi Zeus, cioè Olimpia), ma anche di rispetto e stima reciproca, né poteva essere altrimenti. Forse si dovrà considerare che effettivamente gli scavi del Museo dell’Elicona non furono tra i meglio condotti, e che a sua volta Wilamowitz scrive nel 1924, fresco del trauma della guerra persa e dopo essersi firmato sui diplomi di laurea da lui rilasciati come “rettore di guerra” nel 1915 come "Udalricus de Wilamowitz-Moellendorff, plerarumque academiarum socius, e Parisina honoris causa eiectus”. Non credo serva una traduzione.
È possibile ricostruire una storia dei viaggi nella regione dell’Elicona?
È quello che ho cercato di fare nell’Appendice a questo libro. L’Elicona in quanto monte delle Muse attrasse largamente l’attenzione dei viaggiatori, a partire dal XVII secolo, ma incombeva su una pianura, quella della Beozia, priva di significative rovine affioranti, oltre che paludosa e malsana. Le testimonianze non sono dunque troppo numerose e possono essere raccolte e discusse con relativa facilità. Tra i primi a percorrere la zona fu nella seconda metà del Seicento l’inglese George Wheler, formatosi a Oxford. Altri viaggiatori sempre inglesi, ognuno col suo lascito di memorie e disegni, seguono soprattutto nell’età delle guerre napoleoniche; tra loro il grande topografo colonnello Leake (1777-1860), che ci ha lasciato in una serie di splendidi volumi la descrizione sia del Peloponneso sia della Rumelia, come sotto i Turchi si chiamava la Grecia continentale. Per il resto, la parte centrale dell’Ottocento è il secolo dei viaggiatori, ormai non più solo tali, ma anche filologi e archeologi di professione, tedeschi. Nel libro ho dedicato particolare attenzione alla sorte tragica di Karl Otfried Müller, uno dei padri della scienza dell’antichità, che morì proprio a seguito dell’attraversamento della Beozia. Müller, poco più che quarantenne, ma già famosissimo professore a Gottinga, si ammalò durante un massacrante viaggio di ritorno da Delfi ad Atene, vittima di un’insolazione o forse, come sospetto, della malaria, le sue condizioni essendosi aggravate irreparabilmente proprio mentre passava sotto l’Elicona (a cavallo, divorato dalla febbre, sostenuto ai fianchi da due assistenti), che avrebbe voluto esplorare alla fine del viaggio. Era il 1° agosto 1840.
Nella Valle delle Muse anche Callimaco e Properzio ricevettero la loro consacrazione poetica, mentre Ennio trasferì sul Parnaso il sogno di origine callimachea. Perché questa scelta da parte del “padre” della letteratura latina? Quali sono le principali differenze tra la consacrazione di Esiodo e le rivisitazioni letterarie successive?
Callimaco raccontava nel proemio degli Aitia (“Le origini”) di essersi addormentato in Libia e di essere stato trasportato in sogno sull’Elicona, sede delle Muse, le quali lo esortano a raccontare origini di culti e riti delle città greche; e le singole Muse rispondono a turno alle domande del poeta. Il sogno è un espediente per tenere unite dentro una cornice narrazioni diverse. Ennio si ispira a Callimaco, ma con molte varianti che fanno ancora discutere i critici. Innanzitutto il luogo non è l’Elicona, bensì il Parnaso. Inoltre Ennio negli Annali narra di essersi trovato sul Parnaso (forse durante il periodo trascorso in Grecia al seguito di Fulvio Nobiliore durante la campagna di Ambracia) e di avere lì incontrato in sogno prima Omero, che lo esorta a intraprendere un poema di più vasto respiro, e poi le Muse, che completano l’iniziativa di Omero indicando a Ennio la via da seguire. Perché il Parnaso? Perché Ennio vuole dare inizio a una poesia epica italica e il Parnaso è noto al pubblico romano, in quanto situato accanto a Delfi – e i rapporti tra Roma e l’oracolo delfico erano di antica data. Inoltre, il Parnaso e la fonte Castalia sono molto presenti nella tragedia greca, cui la poesia romana delle origini è legata.
Quand'è che l'Elicona iniziò ad essere confuso con il Parnaso? Dal punto di vista culturale e paesaggistico quali sono le differenze più importanti tra i due monti?
I due monti non potrebbero essere più diversi: aspro e torreggiante nonché più alto il Parnaso, una specie di catena montuosa attorcigliata (da qui il nome “elica”) e con versanti più dolci l’Elicona, che ha per giunta due cime. Wilamowitz aveva scalato da giovane il Parnaso, arrivando fino all’antro Coricio, dove erano venerati alternamente Dionìso e Apollo. La differenza culturale, messa in luce da Wilamowitz nella sua lezione, sta nel fatto che le Muse, divinità della cultura e della memoria, frequentano l’Elicona, mentre sui gioghi del Parnaso si aggira il selvaggio tiaso dionisiaco, che non ispira certo i poeti. I due monti non hanno propriamente in comune neanche Apollo, dio di Delfi e della fonte Castalia ai piedi del Parnaso, che alle Muse è legato solo dall’essere, in quanto suonatore della lira, una divinità musicale e poetica. Wilamowitz nel suo articolo mette mirabilmente in luce come la confusione tra le cime, che porterà Raffaello nelle Stanze Vaticane a traslare le Muse sul Parnaso, cominciasse con la poesia romana e sia diventata esplicita in particolare in Virgilio e in Persio. Per Wilamowitz quello che conta, e che viene ben messo in luce, è che in tutta la poesia successiva a Esiodo l’iniziazione poetica conseguita sull’Elicona è una finzione, un bel gioco, come in Callimaco, mentre in Esiodo si trattava ancora di “Glaube”, di “fede”, di un frammento importante di quella che Wilamowitz nella sua ultima monumentale opera – che attende ancora un coraggioso che la traduca in italiano – chiama La fede degli Elleni (Der Glaube der Hellenen) in due volumi, 1931-32).
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Wilamowitz quarantenne col suo predecessore a Gottinga, Hermann Sauppe (fonte Wikipedia)
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L'Elicona fu sede di divinità da tempi molto remoti. Ci sono testimonianze circa il culto che vi si praticava nella notte dei tempi? Quali dèi vi si veneravano prima che Zeus divenisse il signore delle cime dei monti?
In un inno omerico Posidone è chiamato “eliconio” e la leggenda di Pegaso fa pensare che i preelleni venerassero proprio lui, il signore delle acque, come padrone del luogo. Dalla poetessa Corinna di Tanagra, variamente collocabile tra il V e il III secolo a.C., conosciamo la leggenda della Contesa tra il Citerone e l’Elicona, dove i due monti della Beozia sono due giganti selvaggi che Wilamowitz paragona ai mostruosi Thursen della mitologia norrena: vince il Citerone, e l’Elicona offeso rovescia sulle popolazioni sottostanti un disastrosa slavina. Gli indoeuropei Elleni portarono con sé anche sull’Elicona, come sull’Olimpo e sulle altre cime dei monti, Zeus, garante dell’ordine cosmico e titolare della giustizia tra gli dèi come tra gli uomini.
Lei afferma che grazie agli Elleni quel monte, da recesso preistorico popolato da giganti e regno di divinità teriomorfe, divenne dominio di Zeus, antropomorfo signore delle vette, del tuono e della folgore e insieme tutore dell'ordine morale che regge il mondo. In questo contesto si inserisce il poeta Esiodo di Ascra, pastore sul solitario monte delle Muse, che si fece portavoce del nuovo regno di Dike, la Giustizia assistente di Zeus. Su questo monte Esiodo ricevette la consacrazione a poeta e, soprattutto, a profeta. Come avvenne questa consacrazione-iniziazione? Come la descrive Esiodo?
Enfatizzando il legame tra il poeta, le Muse e Zeus, Wilamowitz stringe ancora più saldamente tra loro le due opere di Esiodo, la Teogonia, rivelata all’autore dalle Muse, e Le opere e i giorni, che celebrano, pur con accenti di personale pessimismo, l’avvento di Zeus e della Giustizia. Segnalo a questo proposito il libro di uno dei massimi filologi inglesi della seconda metà del Novecento: (Sir) Hugh Lloyd-Jones, The Justice of Zeus, dove il percorso di moralizzazione della religione ellenica, che comincia con Esiodo, si compie definitivamente in Eschilo. Wilamowitz interpreta l’iniziazione di Esiodo molto realisticamente, secondo me a ragione. Nella solitudine di quella che i Greci chiamano eschatiá, una zona liminale, una sorta di terra di nessuno ai margini del territorio e della razionalità della polis, ogni esperienza psicologica estrema può accadere. Esiodo stesso racconta come andarono le cose all’inizio della Teogonia (vv. 9-11), e Wilamowitz riassume e spiega con parole sue: "Una sera ebbe luogo l’illuminazione; percepì dalle nebbie che scendono dall’Elicona delle voci divine che lo chiamavano e gli ordinavano di impugnare il bastone da rapsodo e di diventare poeta, cioè profeta delle Muse; e tramite loro parlava il padre onnipotente Zeus, che troneggia lassù sull’Elicona".
Wilamowitz paragona Esiodo ai grandi profeti israeliti, soprattutto ad Amos, anche lui pastore, che venne chiamato dal suo Dio a levare la propria voce presso il popolo contro l'ingiustizia e il malgoverno. Noi sappiamo, come asserisce Wilamowitz, che i profeti israeliti sono quasi tutti oratori politici, mentre Esiodo, pur facendosi banditore di una nuova religione che vede nella divinità una forza morale in contrasto con gli dèi di Omero e con ogni religione primitiva, è più interessato a riflettere sull'origine del mondo, sulle forze divine che lo animano. Su cosa è fondato l'accostamento tra Amos ed Esiodo?
Wilamowitz non è il solo a intuire un parallelo tra momenti del profetismo biblico e figure della letteratura greca, soprattutto arcaica. In particolare, il paragone tra Amos (VIII secolo a.C.) e Esiodo era stato da lui intuito già nel suo libro sul biografo antico Antigono di Caristo, del 1881. Amos, come Esiodo, non è un profeta di professione, ma un pastore e coltivatore vocato da Dio mentre pasce il suo gregge, esattamente come Esiodo è “chiamato” dalle Muse e tramite loro da Zeus. Entrambi hanno a cuore temi sociali (nel caso di Amos anche la minaccia esterna dei nemici di Israele), e di quei temi, primo fra tutti la lotta alla corruzione da parte dei giudici e allo sfruttamento dei deboli da parte dei ricchi, si fanno portavoce – che è poi ciò che significa in greco la parola “profeta”. Studi recenti, in particolare di K. Seybold e J. von Ungern-Sternberg, hanno chiarito come un analogo tipo di letteratura sapienziale, alimentata da una estesa crisi di modernizzazione sociale, abbia viaggiato in quei secoli dall’area mesopotamica, attraverso il Mediterraneo orientale (Fenicia, Cipro), fino alla Grecia.
Cosa sappiamo delle tante chiesette e cappelle cristiane disseminate lungo la Valle delle Muse? Abbiamo notizie o testimonianze di santi titolari di queste strutture che hanno ereditato funzioni di divinità greche?
Il paesaggio greco è punteggiato di cappellette e chiesette dedicate ai molti santi della Chiesa ortodossa. Segno della pietà popolare, queste cappelle sono lì per invitare il pellegrino a una sosta. In più di un caso esse rappresentano l’evoluzione cristiana di culti pagani, spesso in presenza di acque correnti, che nell’antichità erano magari legate alle ninfe ed erano comunque indizio di una presenza divina. Nella Valle delle Muse, ad esempio, c’è la cappella di San Niceta che su un cavallo miracoloso, evidente erede di Pegaso, avrebbe liberato una fanciulla rapita dai pirati barbareschi: lungo la costa sud di Creta, presso il sito della antica città di Lebena, si mostravano e forse tuttora si mostrano i segni lasciati dallo zoccolo del cavallo. Nella valle eliconia c’è anche una chiesetta di San Nicola, un santo che a detta degli studiosi avrebbe ereditato le funzioni del dio Posidone.
Beato colui che in un'età in cui dominano incontrastate menzogna, ipocrisia e brutale violenza sa custodire la fede di Esiodo. Con questa esortazione si chiude il saggio di Wilamowitz, presumibilmente scritto al momento del naufragio dei due governi Stresemann, all'inizio del 1924, quando lo studioso è a riposo da tre anni, essendo stato "prepensionato" a partire dal 1921, in forza di una legge promulgata dallo stato prussiano il 31 gennaio 1920. Tale legge, che imponeva la decadenza dei professori universitari al compimento del settantesimo anno, da lui fu sempre avvertita come una ritorsione della neonata repubblica di Weimar contro chi come lui aveva offerto negli anni della guerra un troppo convinto sostegno al militarismo tedesco, militando apertamente su posizioni patriottico-conservatrici. Secondo lei questa esortazione, che è maturata un secolo fa in un preciso contesto storico, è attuale nella nostra epoca o è piuttosto un'utopia?
Non direi che sia un’utopia, ma che come tale possa essere avvertita in momenti di particolare crisi, come fu nella Germania uscita prostrata dalla grande guerra e come probabilmente è di nuovo in Europa, in maniera più o meno grave, dopo la fine del periodo di rinascita ed espansione seguito alla seconda guerra mondiale. Il messaggio di Esiodo, un uomo la cui famiglia veniva dalla ricca Ionia, patria di Omero, e che si era ritrovato a fare il pastore nella arretrata Beozia, per giunta avendo subito una grave ingiustizia al momento della spartizione dell’eredità paterna tra lui e il fratello, è di grande saldezza morale nel momento in cui si ancora alla fede in un ordine cosmico capace di rivelarsi al poeta-profeta e di essere da lui propagato. Wilamowitz, anche grazie al suo immenso prestigio personale, sopportò con dignità il pensionamento forzato e anche le difficoltà economiche che seguirono alla fine della guerra mondiale. Ciò che non poté mai ammettere era il tramonto del vecchio ordine prussiano. E soprattutto non poté accettare la morte in guerra, peraltro eroica, del figlio maggiore e prediletto Tycho, avviato anche lui alla filologia, nell’ottobre del 1914. La moglie Marie Mommsen, figlia del grande storico di Roma, testimonia in una sua lettera che il marito da quel giorno non fu più lo stesso.
Come mai, nel mare magnum delle pubblicazioni dell'illustre studioso tedesco, ha deciso di occuparsi della curatela di questo breve, ma ricco saggio? Quale messaggio si augura possa arrivare a coloro che avranno il piacere di leggerlo?
È da un po’ di tempo che gli studiosi vanno riscoprendo e magari traducendo opere minori e anche minime di Wilamowitz (un esempio: il suo aureo saggio sulle Fonti del Clitumno, ispirato dal Carducci). Il Monte delle Muse è piccolo solo in apparenza; in realtà contiene una penetrante interpretazione di Esiodo, unico tra i grandi autori greci di cui Wilamowitz non si sia espressamente occupato con una monografia di ampio respiro. Mi è parso stimolante proporre questa lettura, certo densa per altezza di interpretazione e per concentrazione di dottrina filologica, proprio perché Wilamowitz è stato il primo a interpretare Esiodo come profeta “europeo”: profeta di una religione della giustizia che a suo giudizio ha valore ancora ai nostri tempi ed è una creazione tipicamente ellenica. Infine il saggio padroneggia la filologia testuale, l’archeologia, lo studio topografico del paesaggio, le letterature moderne, il folklore; la filologia wilamowitziana si può condensare nella parola Totalitätsideal, “ideale di totalità”: una filologia monumentale, che dai monumenti risale alla vita dell’antichità nella sua interezza. Lo strumento principale a questo scopo è l’interpretazione, l’esegesi o ermeneusi: una interpretazione onnivora che è per sua stessa definizione “il più bel compito della filologia: un documento pienamente capito è meglio di ogni manuale e di ogni raccolta di dati”. Il mio contributo, partendo da un’opera, ripeto, minore, ma a suo modo esemplare, ha voluto essere quello di mostrare come la scienza dell’antichità, praticata al più alto livello, sappia ancora parlare alla mente dell’uomo moderno.
In effetti, la scienza antichistica si coniuga con la modernità e aiuta a comprenderla. La ragione per lo studio degli antichi sta nella nostra storia. Sta nel fatto che la cultura moderna si è letteralmente nutrita di antichità, si è formata nel confronto con l’antico sia sul piano delle idee generali sia su quello delle fantasie e delle emozioni. La filologia classica è stata la base dell’educazione europea in tutto il corso della storia moderna, fin dall’Umanesimo; in particolare, essa è stata la cultura trionfante della borghesia dei paesi riformati nella fase della sua ascesa, ed è stata poi la scienza trionfante della Germania nel secolo che va dalla fondazione dell’Università di Berlino, nel 1810, allo scoppio della prima guerra mondiale, quando la “Altertumswissenschaft” (“scienza dell’antichità”) fu di nome e di fatto tedesca. Non c’è mondo moderno senza antichità. Può darsi che l’antichità non ci appartenga più, ma il mondo moderno sì.
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