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Iride Peis: racconto, perché qualcosa di me resti

mercoledì, 08 dicembre 2021 08:35

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Iride Peis Concas
Dal nostro inviato
Francesca Bianchi
L'estate scorsa, durante la mia visita a Guspini (SU), ho avuto la gioia di conoscere la scrittrice Iride Peis Concas, una delle Janas più sagge della Sardegna, che con i suoi racconti riesce a parlare al cuore di grandi e piccini. Iride ha formato generazioni di bambine e bambini: per 35 anni ha insegnato alle scuole elementari, anche nel villaggio minerario di Montevecchio, a circa 10 Km dal centro urbano di Guspini. Gli anni di insegnamento a Montevecchio l'hanno segnata: ha creato subito un forte legame con le persone della miniera, si è affezionata alle loro storie e da allora ha dedicato tutta la sua vita alla memoria di quel mondo, prodigandosi perché le storie di quella gente venissero conosciute e valorizzate. Nessuno deve mai dimenticare le condizioni di vita disumane, la povertà estrema, il dolore, la miseria della gente che viveva e lavorava in miniera. Questa preziosa custode di un notevole patrimonio di tradizioni, leggende, conoscenze si è occupata soprattutto della storia delle donne della miniera di Montevecchio, restituendo voce e dignità a tante donne che la storia aveva ingiustamente condannato all'oblio.
Nel corso della bellissima intervista rilasciata a FtNews, questa travolgente cantastorie - così ama definirsi - ha parlato molto della sua attività di scrittrice di racconti relativi al villaggio minerario di Montevecchio e si è soffermata su alcune delle sue tante pubblicazioni: Donne e bambine nella miniera di Montevecchio (Pezzini Editore, 2010), in cui affronta la tragedia di Atzuni, nella miniera di Montevecchio, avvenuta nel 1871, in cui persero la vita undici lavoratrici, quasi tutte giovanissime (tra loro anche due bambine di 10 anni); Voci di donna. Nella collina di Genna Serapis a Montevecchio (Carlo Delfino Editore, 2015), una raccolta di 67 storie di donne in cui si fa luce sulla condizione femminile nella miniera di Montevecchio tra XIX e XX secolo; Le Janas di Montevecchio (Domus de Janas Editore, 2019), in cui rievoca antiche leggende del territorio per nutrire la fantasia dei bambini.
Nei suoi scritti coinvolgenti e di piacevole lettura, partendo sempre dal dato storico, Iride Peis ricostruisce la dura realtà della miniera rievocando la vita di donne, uomini, bambine e bambini che lavoravano in maniera, facendo rivivere il loro carattere, la loro umanità, i loro sentimenti. I libri di Iride non si limitano a riportare il freddo dato storico: gli scritti di questa straordinaria scrittrice, oltre a delineare un quadro etnoantropologico della Sardegna del XIX e del XX secolo, profumano di emozioni e sentimenti.
Iride Peis Concas non mi ha aperto soltanto le porte della sua casa, ma anche e soprattutto quelle del suo cuore generoso. Auguro a chiunque l'emozione e il privilegio di guardarla negli occhi e restare incantato dalla bellezza e dalla dolcezza del suo sguardo, dal candore della sua anima, dalla sua innata bontà. Iride, così tenacemente attaccata alla vita, Maestra sì di scuola, ma soprattutto di vita per tanti allievi e per tutti coloro che hanno la fortuna e il privilegio di conoscerla, di ascoltarla, di viverla, è la dimostrazione che seminando il bene attorno a noi con le nostre azioni e le nostre parole, vivremo in eterno. Con il suo esempio instancabile esorta tutti noi a vivere il presente con più leggerezza - che non è mai superficialità - e a coltivare sempre il fanciullino che dimora nella nostra anima.

Iride, lei per 35 anni ha insegnato alle scuole elementari. Ha insegnato anche nel villaggio minerario di Montevecchio, a circa 10 Km dal centro urbano di Guspini. Subito si è innamorata della gente della miniera e da allora ha dedicato tutta la sua vita alla memoria di quel mondo, prodigandosi perché le storie di quelle persone venissero conosciute e valorizzate. Si è occupata soprattutto delle questione femminile, restituendo voce e dignità a tante donne ingiustamente dimenticate. Nel 2010 ha pubblicato il libro Donne e bambine nella miniera di Montevecchio Pezzini Editore), in cui affronta il tema della tragedia avvenuta nel 1871 nel cantiere Azuni, nella miniera di Montevecchio, dove persero la vita undici lavoratrici, quasi tutte giovanissime. Ci parli pure di questa tragica vicenda... Come ne è venuta a conoscenza? Cosa sappiamo delle condizioni di lavoro delle donne nella miniera di Montevecchio?
Nel cantiere di Azuni il 4 maggio 1871 undici donne morirono tragicamente. Avevo intenzione di realizzare brevissimi racconti relativi a questa vicenda, così ho voluto che fossero proprio loro, donne e bambine, a raccontare la loro storia. Io come insegnante elementare amavo tanto parlare ai bambini del lavoro minorile. Avevo fatto studiare la storia delle miniere francesi, ma non sapevo assolutamente nulla di quello che era successo a dieci chilometri da casa. Mio nonno Antioco era un capo fonditore di miniera e raccontava a noi nipoti molte storie relative alla gente della miniera, ci parlava anche del lavoro massacrante delle donne. Nonno, però, non mi aveva mai parlato di bambine. Questa storia delle donne di miniera mi è tornata in mente quando sono andata a vivere a Montevecchio. Ho pensato alla storia delle cernitrici di miniera. Mi è tornato alla memoria un lavoro del dott. Porrà, che è una breve ricerca, un documento scritto dove era riportata la storia di queste donne. Capii che a Montevecchio potevano lavorare anche bambine, così sono andata a cercare notizie più approfondite all'Archivio di Stato di Cagliari. Quando ho preso in mano il documento redatto dal dott. Porrà, mi sembrava di sentire i sussurri di queste bambine che finalmente avevano ritrovato voce. A Guspini nessuno sapeva nulla di questo fatto. Da allora ho promesso a me stessa che queste donne e queste bambine non sarebbero mai state dimenticate. Ho fatto il possibile - e continuerò a farlo finché avrò vita - affinché ogni voce potesse tornare a parlare per raccontare cosa poteva provare una bambina in maniera. Il pensiero che bambine di nove-dieci anni siano state in questi cameroni a bocca di pozzo, lontane dai loro paesi, dalle loro mamme, affidate ad altre donne, fa venire i brividi. Le donne che abitavano nei cameroni a bocca di pozza lavoravano dalle 7 del mattino alle 6 di sera. Non tornavano a casa tutte le sere, la stanchezza lo impediva; dormivano in miniera, riposavano sulle brande. Nei dormitori non c'erano servizi igienici, non c'era nulla. Il 4 maggio 1871 la vasca usata per lavare i minerali si ruppe, facendo crollare il tetto. Undici donne persero la vita: Antioca, 32 anni; Rosa, 15 anni; Luigia, 27 anni; Luigia, 15 anni; Rosa, 50 anni (la più anziana); Anna, 11 anni; Elena, 10 anni; Anna, 12 anni; Caterina, 10 anni; Anna, 14 anni; Anna, 14 anni. Nessun nome deve essere dimenticato. Ogni nome ha una storia. Considero il cantiere di Azuni un lembo di terra sacro.
Le donne quando hanno iniziato a lavorare nella miniera di Montevecchio?
L'ingresso delle donne in miniera è stato voluto intorno al 1850 dall'ing. Nicolai. Lui aveva visto le donne purgare i cereali ed era rimasto incantato dalla loro velocità e dalla loro destrezza, così pensò di portarle in miniera. La produzione ne avrebbe tratto beneficio, in quanto lavoravano il doppio degli uomini e la loro paga sarebbe stata la metà. Due importanti traguardi per la Società mineraria: più produzione, meno spesa. La storia delle donne di miniera è una storia di progresso e di emancipazione, perché in tempi oscuri hanno affrontato coraggiosamente un cambio di rotta atavico, uscendo dai confini domestici per un lavoro nuovo e superando, in quel mondo di maschi, pesanti pregiudizi. In questa maniera le donne si sono aperte alla modernità. La paga, la consapevolezza acquisita dei propri diritti, nonostante le fatiche e le lotte, le ha rese libere e indipendenti. Questo ci hanno insegnato le cernitrici e io farò di tutto perché si conosca la loro storia.

Lei arrivò a Montevecchio per seguire suo marito, medico della miniera. Da dove venivano le persone che lavoravano in miniera?
In miniera si potevano incontrare persone provenienti da vari paesi; la miniera era un crocevia: c'erano bergamaschi, veneti, molti venivano da Agordo (BL). Lì, infatti, c'era una scuola mineraria e i ragazzi agordini venivano a Montevecchio per fare tirocinio. Il padre di mio marito era un minatore, un armatore di gallerie che nel 1936 dalle miniere del Fluminese arrivò a Montevecchio con moglie e tre figli, a cui poi se ne aggiunsero altri quattro. Mio Bruno, mio marito, frequentò le scuole medie e il ginnasio a San Gavino, grazie anche alla Società mineraria che metteva il pullman a disposizione gratuitamente per raggiungere la scuola; a Carbonia, poi, fece il liceo classico, e a Cagliari l'Università. Un regolare corso di studi con molti sacrifici da parte della famiglia. Nel 1966 tornò nella sua amata Montevecchio come medico e io lo seguii come sua sposa.

Lei a Montevecchio ha dedicato anche un libro, intitolato proprio Montevecchio e pubblicato nel 1991 dall'Editore S'Alvure. Come è nato questo lavoro?
Il libro Montevecchio è nato da una ricerca sulla storia della miniera di Montevecchio che io avevo affidato ai bambini. Abbiamo fatto lo studio del territorio di Montevecchio. Abbiamo iniziato ad intervistare i genitori, figli di tecnici, figli di minatori, tutte persone che conoscevano bene la realtà delle miniere. Raccogliemmo una serie infinita di informazioni su Montevecchio: andammo a studiare i toponimi, un geologo tenne una lezione ai bambini. Io, poi, mi sono appassionata talmente tanto alla storia di Montevecchio da pubblicare il libro Montevecchio. Come ho detto, mio nonno mi aveva raccontato della miniera. Quando mi sono occupata di Montevecchio, sono riaffiorati tutti i suoi racconti, e devo dire che sono stati fondamentali per andare alla ricerca delle cernitrici che ancora erano a Guspini.

Nel 2015, per l'editore Carlo Delfino, ha pubblicato il libro Voci di Donna. Nella collina di Genna Serapis a Montevecchio, una raccolta di 67 storie di donne che raccontano molto sulla vita delle donne nella miniera di Montevecchio tra XIX e XX secolo. Di chi sono queste voci? Di quali donne si parla? Che legame hanno avuto con la miniera di Montevecchio?
Le vicende narrate nel libro ripercorrono la storia del villaggio minerario di Montevecchio, arroccato sulla collina di Genna Serapis. L'imponente palazzo Sanna-Castoldi domina la pianura del Campidano e custodisce la bella chiesetta dedicata a Santa Barbara, protettrice dei minatori. Lì un tempo migliaia di persone hanno pregato, pianto, gioito; oggi è un luogo disabitato e silenzioso. Sono 67 donne a raccontarsi: tutte arrivate in miniera per seguire i mariti, ma anche donne che vi lavoravano: sono mogli o figlie di tecnici, di impiegati, di medici, di direttori, ma sono anche cernitrici, insegnanti, levatrici. Voci di donne che avevano abitato questi luoghi, ne avevano calpestato le strade, vi avevano partorito e cresciuto figli, lavorato, amato, sofferto. Queste voci tornano nel mio libro per rivelare cose mai dette, identità da recuperare, vicende perse nella fretta di vivere. Brandelli di vita, frammenti di emozioni, stralci di amori, lacerazioni dolorose di tempi antichi e recenti. Nella collina di Genna Serapis si può sentire un alito di eternità, se si ascolta con l'orecchio del cuore e si parla con gli occhi dell'amore. Nessuno muore se noi ricordiamo. Le mie voci di donne ci trasportano in un tempo e in un luogo in cui la fatica e il dolore, la fame e la miseria, vivevano accanto alla gioia, alla spensieratezza, alla musica, all'arte e anche all'ingegno e all'operosità degli uomini e delle donne che hanno fatto di Montevecchio una grande Miniera, la miniera più grande d'Europa.
Iride Peis insieme a suo marito Bruno Concas
Ha dedicato Voci di Donna alle donne della sua vita: sua madre, sua suocera, le sue figlie e le sue nipotine...
Sì,Voci di Donna è dedicato a mia madre Gina, per avermi dato la vita e l'amore per essa; a mia suocera Mariuccia, che mi ha trasmesso il coraggio di attraversarla. Mia suocera è stata per me una fonte preziosa di notizie, di racconti; mi ha fatto amare anche le avversità che ha attraversato, facendomi capire che le avversità forgiano. Mi ha fatto vedere aspetti della vita che non conoscevo: io sono cresciuta in una famiglia benestante, per cui non conoscevo molti problemi che lei ha dovuto affrontare. Le devo molta riconoscenza e gratitudine. Voci di Donna è dedicato, poi, alle mie figlie Miriam e Daniela, che mi hanno resa mamma, e alle mie nipotine Giada Maria e Marzia, affinché ne raccolgano la preziosa eredità.

Per molti lei è la Maestra Iride, colei che con infinito amore ha formato generazioni di bambine e bambini. Quando ha deciso di fare la maestra? Che ricordo ha degli anni di insegnamento?
All'età di 9 anni dissi che avrei fatto l'insegnante. Guardando le stelle cadenti, espressi il desiderio di diventare maestra, il mestiere più bello del mondo. È stata una cosa talmente naturale, una vera e propria passione! Io sono contenta e soddisfatta della mia scelta, l'ho fatta col cuore e ancora oggi ho molti riscontri positivi. Grazie a Facebook mantengo rapporti con tanti miei studenti; è così bello rivederli dopo tanti anni! Sono andata in pensione nel 1996. Ho fatto anche le scuole popolari; ricordo di aver avuto una classe di 18 alunni, tutte persone anziane che dovevano prendere la quinta elementare.
Gli anni di insegnamento mi hanno lasciato un gran bel senso di appagamento per i rapporti che sono riuscita a creare con gli alunni e con i genitori. Sono stati anni proficui: abbiamo organizzato tante cose belle, la scuola Giuseppe Dessì di Guspini in tal senso è stata una fucina di iniziative e progetti. Con i bambini della suola ho fatto anche un lavoro sulle strade di Guspini: tante nostre vie sono intitolate a personaggi che hanno fatto la storia del nostro paese. Oggi vengo invitata nelle scuole per raccontare ai bambini la storia del territorio. Io accetto sempre con entusiasmo, perché penso sia fondamentale parlare con i bambini e suscitare in loro interesse e curiosità per la storia del paese in cui vivono.

Proprio per diffondere la conoscenza del territorio tra i bambini, nel 2019 ha pubblicato il libro Le Janas di Montevecchio (Domus De Janas Editore). Di cosa si parla nel libro? Chi sono le Janas?
Sì, il libro Le Janas di Montevecchio è nato con l'intento di scrivere racconti per i bambini, per far conoscere loro il territorio. Mi preme sempre che i bambini, quando passano davanti a un monte o a qualsiasi altro elemento naturale, ne conoscano la storia e il nome. È importante nutrire la fantasia dei bambini. Vorrei che i toponimi venissero conosciuti. Quando mi reco nelle scuole, ai bambini ripeto sempre queste parole: "quando siete in macchina con i vostri genitori o i vostri nonni, fate sempre domande, chiedete sempre notizie sul paesaggio, non vi stancate mai di fare domande su tutto ciò che passa davanti ai vostri occhi e cattura la vostra attenzione". Passiamo davanti a tante cose belle e non le notiamo. La Sardegna è una terra ricca di leggende e di miti. Un tempo lontano era abitata dalle janas, creature di piccola statura, belle, curiose, ardite e laboriose come tutte le donne sarde. Nel libro racconto la storia di queste creature misteriose. La loro pelle era d’ambra, gli occhi ardenti come carboni accesi, la bocca a cuore, i denti di perle, il naso a puntina di spillo e le manine morbide e delicate, dita affusolate con unghie a mezzaluna. Vestivano gonne plissettate rosse, strette in vita con corsetti di broccato sopra la camicia bianca, scialli di seta e gioielli in filigrana. Si racconta che nella zona di Montevecchio vivessero a Monte Arcuentu, Monte Maiori, Struvoniga, Tuvu Mannu, Piccalinna e in altre collinette dei dintorni. C’è da crederci: le numerose grotte hanno segni misteriosi, attraggono per le loro forme bizzarre e per il fascino che ancora oggi emanano. Forse qualche "jana", dimenticata dal tempo, è ancora viva, coglie bacche di mirto e di lentisco, fiori di malva e di brundaioba, prepara pane e dolci di miele e soggiorna in una grotta solitaria tessendo tutta la notte e intonando canzoni antiche.

Iride, cosa rappresenta per lei la scrittura?
Io amo definirmi una cantastorie. La scrittura rappresenta per me un rifugio, ma non è un rifugio solitario: quando scrivo, mi sento in compagnia di tante persone che fanno energia in me. La scrittura rappresenta un modo di esprimere emozioni, sensazioni, verità; mi offre la possibilità di evocare e attualizzare valori che purtroppo non vanno più di moda. In questa maniera riesco ad imprimerli. Non voglio dare insegnamenti a nessuno, però mi piace che si sappia come sono e come la penso. Racconto, perché qualcosa di me resti. Questa cosa mi fa stare bene; quando uno sta bene, riesce anche a comunicarlo.

Quando uscirà il suo prossimo libro?
Attualmente sto lavorando a un libro intitolato Contus in poesia, che tradotto in italiano significa 'racconti in poesia'. Questi racconti li sto scrivendo in sardo. Vorrei riuscire a pubblicarli prima dell'autunno 2022.

Cosa si augura per il futuro?
Mi auguro di poter continuare a vivere e a lottare, perché intorno a noi ci siano più tolleranza, più concordia, più benevolenza. Per i miei nipotini mi auguro che siano onesti e consapevoli delle loro qualità e che trovino anche una persona che sappia guidarli. Mi auguro che non mi manchino mai l'entusiasmo, l'amore del fare, del donare, la voglia di partire e intraprendere nuove avventure e nuove esperienze. Non smettiamo mai di sognare! Sono una romantica e dico che bisogna sognare sempre. Andiamo sempre alla ricerca di realtà e paesaggi con storie da tramandare, perché non si perda mai il bene più prezioso dell'esistenza umana: la memoria.
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