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venerdì, 09 agosto 2024 07:48 |
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Maria Guccione appoggiata alla barca di donna Franca Florio
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Dal nostro inviato
Francesca Bianchi
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FtNews
ha intervistato Maria Guccione, che per oltre quarant'anni, insieme alla sorella Giovanna, ha gestito l'albergo-ristorante "Egadi", a Favignana (TP). Memoria storica dell'isola, Maria ha rievocato gli anni in cui la tonnara dava lavoro agli abitanti di Favignana, sfamando intere famiglie e segnando la vita della comunità isolana. In particolare, ha condotto i nostri lettori alla scoperta della parte della Camparìa, restaurata e musealizzata dall'imprenditore Fabio Tagliavia, che il 5 luglio è stata inaugurata e aperta al pubblico. Ha sottolineato che questo luogo permette di scoprire il mondo del lavoro, umile e manuale, che vi si svolgeva per preparare il calo delle reti e poi di nuovo, alla fine della stagione di pesca, per riporle.
Maria Guccione ha parlato anche dei suoi libri dedicati all'isola: Frascatole. Favignana, ricette e altre storie (Coppola editore, 2003), E venne il vento e mi restituì i ricordi. Memorie di un'isola (Coppola editore, 2008), Ex Stabilimento Florio delle tonnare di Favignana e Formica. Una visita guidata dalla mente e dal cuore (Anselmo editore, 2014) e Io e l'isola: una storia d'amore. Per decidere cosa vogliamo essere dobbiamo prima sapere cosa eravamo (Anselmo editore, 2021).
Maria Guccione ha ricordato anche la sacralità del lavoro dei tonnaroti e i loro canti, delle vere e proprie preghiere per chiedere a Dio una buona pesca; ha ricordato i modi di dire, i riti e i proverbi che hanno segnato la storia e la vita della comunità favignanese, di cui lei è punto di riferimento indiscusso e autorevole.
Sig.ra Guccione, il 5 luglio è stata inaugurata e aperta al pubblico una parte della Camparìa, uno spazio restaurato e musealizzato dall'imprenditore Fabio Tagliavia. Di cosa si tratta?
Si tratta di un grande spazio pieno di attrezzi da lavoro, seghe, pialle, martelli, cime, ancore, barche, reti che un tempo, prima di essere fatte di nylon, avevano bisogno di essere ricucite, gente che lavorava gioiosa perché era ripartita la tonnara, quindi era ricominciata l'economia per l'isola. Non dimentichiamo che la tonnara dava la vita, e non è un caso che questo luogo si chiami camparìa, in quanto, grazie al lavoro, dava "da campare". Se dovessimo chiamarla col nome corretto, dovremmo chiamarla malfaràggio, che era presente in tutte le tonnare di Sicilia ed era un complesso di stanze, magazzini, officine, luoghi per il rimessaggio all'aperto e al chiuso. La camparìa è il malfaràggio dello Stabilimento Florio di Favignana, ma è anche il malfaràggio della tonnara, cioè di quell'insieme di reti che venivano calate a mare a partire dal mese di aprile e che servivano per esercitare la pesca del tonno. Oppiano di Cilicia, nel II sec. d.C., descriveva il complesso di reti della tonnara a mare come un castello di rete fatto di stanze, gallerie e porte, dove i tonni entravano "spinti da amoroso furore di nozze", cioè desiderosi di riprodursi. Questo posto è stato costruito quasi contemporaneamente allo stabilimento, tra il 1881 e il 1886, dallo stesso ingegnere, La Porta, e con la stessa pietra, che è la pietra delle cave di Favignana, la calcarenite.
A quando risalgono le prime testimonianze dell'esistenza della tonnara?
La tonnara esiste da sempre. Sulle pareti della Grotta del Genovese, a Levanzo, troviamo la figura del tonno. Questo dimostra che quegli uomini primitivi conoscevano già il tonno, tanto da dipingerlo con finalità apotropaiche, cioè riti propiziatori: facevano il disegno nella speranza di poterlo pescare.
Perché il 23 aprile rappresentava una data importantissima per la tonnara?
Entro il 23 aprile gli operai dovevano calare il crociato, cioè i due grandi capi d'acciaio indicanti il luogo dove si dovevano sistemare le reti. Il 23 aprile è una data benaugurante, in quanto il 23 aprile del 1063 si svolse la battaglia di Cerami, nel corso della quale i Normanni di Ruggero d'Altavilla, sotto il vessillo di San Giorgio, vincitore del drago, riportarono un'importante vittoria contro i musulmani, segnando la fine del dominio arabo in Sicilia. Si tratta di una data simbolica, una data simbolo di vittoria, come si sperava che vittoriosa sarebbe stata la pesca, che all'epoca dava alla gente la possibilità di sopravvivere.
Cosa simboleggiano le diverse code di squalo esposte su una base di legno all'interno della Camparìa?
Quelle code sono dei trofei, perché gli squali vanno al seguito dei tonni, quindi arrivavano anche in tonnara. Alcuni squali sono passati alla storia, in particolare uno del 1953, a cui appartiene una delle code più grandi tra quelle esposte. Nel 1953 questo squalo, che pesava ben 1600 chili, cominciò a strappare le reti e fece scappare i tonni. Il raìs, preoccupato, prese un agnello, lo agganciò a un amo e lo buttò in mare nella speranza di poter bloccare lo squalo, che però non abboccò, lasciando l'agnello lì e continuando a fare danni. Una mattina lo squalo sentì l'odore del sangue che scendeva dallo stabilimento dove stavano squartando i tonni. Lo squalo si avvicinò allo stabilimento, ma trovò una spiaggia bassa e si arenò. Dovettero intervenire i carabinieri e sparargli; lo uccisero e i tonnaroti gli tagliarono la coda, che attaccarono lì come ricordo. C'è la coda di uno squalo tigre del 1972 e la coda di uno squalo del 1980, che pesava addirittura 1800 chili e aveva nella pancia un delfino di 200 chili.
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Riproduzione di una tonnara con le varie camere
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L'impianto di questo edificio ricorda quello di una chiesa...
Archi a tutto sesto, archi a sesto acuto, tetto a cassettoni, luce che viene dal fondo: è un impianto di tipo basilicale, è una basilica a tre navate, e come basilica ha quel senso di spiritualità e quel senso del divino che è proprio delle chiese. C'è questa aura di vita che si è intrecciata con il lavoro, con l'esperienza, con la capacità delle mani, e tutto questo diventa il filo conduttore della narrazione. I canti e i riti li facevano quando erano in mare, però io immagino che qualche tonnaroto o un raìs, da soli, con voce sommessa, possano essersi fermati qui a pregare la Divina Provvidenza per chiedere una buona annata. Nelle preghiere dei tonnaroti c'era il bisogno di avere una buona annata per le famiglie che vivevano intorno e con la tonnara. I tonnaroti che praticavano la pesca erano 65-70, ma poi c'erano circa 500-600 persone che lavoravano allo stabilimento alla conservazione del tonno. Se capitava una cattiva annata, l'economia di Favignana era messa in crisi.
La Camparìa ospita diverse barche, tra cui quella utilizzata da donna Franca Florio per assistere alla mattanza, tornata a Favignana dopo un intervento di recupero conservativo. Cosa sappiamo di queste barche?
Qui era tutto pieno di barche perché la tonnara aveva una vera e propria flotta: c'erano i vascelli, le barche per portare i sugheri, le barche che trasportavano il sale per la tonnara, quelle che trasportavano i prodotti finiti da esportare. Inoltre i Florio hanno avuto sei yacht: il Sultana, il Valchirie, il Franca, l'Aretusa, il Fieramosca e l'Aegusa, che era il più grande ed era il preferito di donna Franca. Con l'Aegusa sono andati a Messina nel 1908 a portare gli aiuti quando c'è stato il maremoto. L'Aegusa era la barca con cui venivano a Favignana. Quando la famiglia ha cominciato ad avere problemi, l'ha venduta a Lipton, l'imprenditore del tè.
Quanto alla barca che donna Franca Florio utilizzava per assistere alla mattanza, è lunga 7,20 metri. Dobbiamo immaginarla coperta da un grande tappeto di velluto rosso, che avrebbe occultato eventuali schizzi di sangue provenienti dai tonni pescati. Su questa barca probabilmente è salito il vescovo di Mazara, magari giunto a Favignana per ricordare ai Florio di dare le decime alla chiesa di Mazara. Le tonnare, infatti, mantenevano orfani, preti, conventi, non mantenevano solo i dipendenti. Possiamo immaginare che su questa barca sia salita anche la principessa Beatrice Tasca Filangeri di Cutò, madre di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che fu ospite dei Florio a Favignana. L'autore de Il Gattopardo in una novella afferma che nel palazzo dei Florio era ospite anche Eugenia de Montijo, la moglie dell'imperatore Napoleone III, abituata a svegliarsi di buon mattino. Lo scrittore dice che quest'ultima imponeva a donna Franca la levataccia "con imperiale indifferenza".
Sig.ra Guccione, a Favignana ha dedicato diverse pubblicazioni, a cominciare da E venne il vento e mi restituì i ricordi. Memorie di un'isola (Coppola editore, 2008), che Aldo Virzì nella sua prefazione definisce quasi una indagine sociologica, da cui lei ha tratto un pezzo di storia anche socio-economica. Come è nato questo libro? Chi sono i protagonisti?
Vent'anni fa facevo parte dell'Associazione "Aegusa Favignana Onlus", che ora non esiste più. Questa associazione si proponeva un recupero culturale delle tradizioni, dei riti, dei ricordi, delle notizie relative all'economia dell'isola. L'unica maniera per venire a conoscenza di tutto ciò era parlare con gli anziani che avevano vissuto quel periodo. Mi sono presa l'incarico di svolgere questo lavoro. Ho deciso di cercare un anziano per ogni categoria economica, di modo che ognuno potesse rappresentarmi il suo lavoro e darmi le informazioni del caso. Mi sono appassionata alle storie di coloro che hanno esercitato la pesca, ai lavoratori della tonnara e agli agricoltori. Non dobbiamo dimenticare che Favignana fino agli anni '60 era un'isola di agricoltori: la pesca è arrivata soltanto nella seconda metà degli anni '60, quando gli aliscafi hanno preso il posto degli "schifazzi", barche a motore e a vela che impiegavano ben due ore per arrivare a Trapani. Gli aliscafi consentivano un commercio rapido del prodotto, per cui molti agricoltori abbandonarono le campagne, alcuni emigrarono, altri si riconvertirono diventando pescatori. Nacque, così, la categoria dei piccoli artigiani della pesca.
E venne il vento e mi restituì i ricordi... Cosa l'ha guidata nella scelta di un titolo così evocativo?
Questo titolo mi è stato suggerito da uno degli anziani che ho intervistato, il pescatore Francesco Randazzo. Quando l'ho incontrato diceva di non ricordare niente, cercava di esimersi da questo compito. Eravamo seduti su una panchina del lungomare. Quel giorno c'era un bel venticello di grecale. A un certo punto lui ha fatto un gesto, come se avesse voluto pulirsi la fronte, e ha esclamato: "Sai che ti dico? È arrivato questo venticello e mi ha pulito la mente. Qualcosa me la ricordo e te la racconto". Io ho colto al volo la frase e ho pensato che sarebbe stata perfetta come titolo del libro. E venne il vento e mi restituì i ricordi che avevo perduto.
Tra le storie degli anziani che ha raccontato nel libro, ce n'è una a cui è particolarmente affezionata?
Ci sono personaggi che hanno avuto una vita appassionante, come Salvatore Arpaia, un contadino che a 90 anni veniva in paese a portare i prodotti con l'ape. A un certo punto gli hanno impedito di guidare l'ape perché era troppo anziano. Lui da quel momento si è ammalato: gli hanno tolto quella che era sempre stata la sua vita, il suo rapporto con il prodotto della terra, che lui seguiva, produceva e coltivava; lo hanno privato delle poche occasioni che aveva di incontrare gente. Quando si è ammalato, sono andata a trovarlo. Lui era a letto, non si alzava più da settimane. Ad un certo punto mi ha chiamato, come se avesse voluto dirmi qualcosa all'orecchio. Io mi sono avvicinata e in dialetto gli ho chiesto cosa avesse. Con tristezza ha risposto che nessuno si occupava dei suoi fiori, così, prima di andarmene, andai ad innaffiarli. Stava morendo ed era preoccupato per i suoi fiori. Il giorno dopo è venuto a mancare. Sono grata a tutti gli anziani che mi hanno insegnato tanto, quando io già avevo 70 anni, consentendomi di apprendere molte altre cose rispetto a quelle che già sapevo.
Per Anselmo editore ha pubblicato i suoi libri più recenti: Ex Stabilimento Florio delle tonnare di Favignana e Formica. Una visita guidata dalla mente e dal cuore(2014) e Io e l'isola: una storia d'amore. Per decidere cosa vogliamo essere dobbiamo prima sapere cosa eravamo (2021). Di cosa parlano?
Negli anni ho formato tante giovani guide che oggi accompagnano i turisti a visitare lo Stabilimento Florio. Un bel giorno ho deciso di mettere per iscritto la mia guida, così da renderla disponibile a tutti, con la speranza che la visita del'ex Stabilimento Florio di Favignana potesse diventare un momento di piacevole e corretta informazione in grado di far percepire al visitatore l'anima di un sito destinato a diventare il luogo della memoria per eccellenza. Quest'anno la guida è stata ristampata con piccole aggiunte e qualche aggiornamento. Quando ho registrato "izi.TRAVEL", infatti, la disposizione delle sale dello stabilimento era diversa da quella attuale. Il 4 agosto sono tornati disponibili alcuni ologrammi dove una serie di tonnaroti e di donne che vent'anni fa hanno lavorato allo stabilimento hanno registrato un ricordo della loro esperienza: è una cosa bellissima e molto emozionante.
Nel libro Io e l'isola, invece, attraverso i miei ricordi di vita vissuta racconto tutto quello che di importante succedeva a Favignana: come è nato l'approdo di Ulisse, come è nata l'area marina protetta, come si sviluppava l'agricoltura e l'importanza che aveva nell'isola, come funzionavano le cave di pietra, come si svolgeva la settimana delle Egadi, che ha rappresentato il primo lancio del turismo favignanese. Il libro è una sintesi di quello che è stata l'isola, della sua storia degli ultimi cinquanta/sessant'anni, una storia che non è stata ancora codificata, quindi il libro è l'unica maniera per venirne a conoscenza.
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Il suo libro più celebre, però, è Frascatole. Favignana, ricette e altre storie (Coppola editore, 2003), scritto insieme a sua sorella Giovanna, con cui, per più di quarant'anni, ha gestito il ristorante Egadi, simbolo di Favignana. Che ricordi conserva di quel periodo? Che tipo di cucina proponevate ai vostri clienti? Cosa l'ha indotta a raccogliere in un libro le ricette di un tempo?
Il nostro albergo-ristorante ha dato il marchio a Favignana; tutti ne hanno apprezzato la capacità di rapportarsi con il cliente, mettendolo a proprio agio e indirizzandolo alla scoperta delle cose migliori del'isola. La nostra era una gastronomia a km zero: i prodotti, tutti locali, erano valorizzati con le vecchie ricette di un tempo, senza fare assurde mescolanze o contaminazioni prive di senso. Ho scritto questo libro per trasmettere ricette che la gente cerca ancora oggi perché nessuno le fa più e nessuno utilizza più quei prodotti. Ho voluto mettere per iscritto le ricette e lasciarle al paese e a chi, anche semplice madre di famiglia, volesse apprenderle e tramandarle ai propri figli. Abbiamo voluto lasciare traccia dei piatti della cucina povera, quei piatti che oggi nessuno fa più perché si pensa che sia quasi una vergogna prepararli. Inoltre, desideravo anche trasmettere aneddoti e curiosità, dato che in 42 anni noi ne abbiamo viste di ogni genere: ho ospitato Bruno Vespa, il quale è andato in cucina a baciarsi mia sorella e tutti coloro che lavoravano lì; è stata nostra ospite Paola di Liegi, che la prima sera ha prenotato, ha mangiato e se n'è andata via felice, la seconda sera si è presentata senza aver prenotato e io purtroppo non avevo posto: nel mio ristorante bisognava prenotare mesi prima per trovare posto. Ho ospitato Renzo Arbore, una giovanissima Mara Venier, Vittorio Gassman e la figlia Paola, che da noi erano di casa, così come Gigi Proietti, con il quale ci scambiavamo le canzoni; dopo cena prendevamo la chitarra e ci mettevamo a suonare in sala.
Mi piaceva raccontare questi episodi, anche quello di un illustre sconosciuto che davanti a un piatto di frascatole è rimasto in religioso silenzio per un quarto d'ora, fissando il piatto. Ricordo che mi avvicinai per chiedere cosa fosse successo. Lui mi rispose che davanti a quel piatto aveva scoperto il significato della filosofia tomistica. Queste furono le sue parole: "San Tommaso sosteneva che dobbiamo cercare Dio ogni giorno nelle piccole cose e io in questo piatto ho trovato Dio". Quando racconto questo episodio, nonostante siano passati trent'anni, mi vengono ancora i brividi. Ho voluto raccontare queste cose per me e per chi ha avuto la fortuna di trovare il libro e di leggerlo.
Come si spiega il titolo del libro? Cosa sono le frascatole?
L'ho intitolato Frascatole perché quello era il piatto più richiesto del nostro ristorante. Le frascatole erano un piatto antichissimo preparato dai poveri. Presso le famiglie ricche palermitane si faceva il couscous. Quando si lavora il couscous, la parte più grossolana si butta via, quindi in quelle cucine ricche la parte lavorata male veniva buttata. I servitori, che erano poveri, se la portavano a casa e la lasciavano asciugare al sole, così diventava secca come una pasta, poi la cuocevano in brodo di cavolfiori, fave, carciofi, facevano una minestra. Mia nonna la preparava; durante la guerra ho mangiato tantissime frascatole, cioè resti di couscous riutilizzati per fare una minestra con verdure. Quando mia sorella ed io abbiamo deciso di recuperare questo piatto, avendo un ristorante di pesce, abbiamo subito pensato alla necessità di preparare un condimento diverso. Allora abbiamo fatto la zuppa di pesce, utilizzando il brodo e mettendo da parte il pesce. Le nostre frascatole non erano i resti del couscous: noi le preparavamo apposta, cioè le lavoravamo finché diventavano delle palline grossolane da poter utilizzare come frascatole e non come couscous. La mattina preparavamo queste frascatole, il brodo della zuppa di pesce e un sugo d'aragosta. La sera prendevamo le frascatole e le buttavano nel brodo giunto ad ebollizione. Quando erano quasi cotte, si buttava dentro un po' di sugo d'aragosta, si mescolava il tutto e si metteva nel piatto, si aggiungeva l'altra aragosta e pochi pinoli abbrustoliti sopra ed avevamo il nostro piatto di frascatole.
Cosa rappresenta per lei Favignana?
Favignana per me rappresenta il liquido amniotico nel quale mi sono formata, ho vissuto, ho appreso.
Cosa si augura per il futuro dell'isola?
Mi auguro che ci sia un'inversione di tendenza: questo turismo sta diventando distruttivo e troppo di massa; da un lato dà, ma dall'altra toglie molto in termini di rispetto e di cultura del territorio. Favignana non ha bisogno di maleducati!
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