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venerdì, 23 ottobre 2020 09:01 |
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Dal nostro inviato
Francesca Bianchi
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Per FtNews
ho avuto il piacere di intervistare l'antropologo Fiorenzo Caterini. Laureato in Scienze dei Beni Culturali e specializzato in Antropologia Culturale, da sempre Caterini si interessa delle problematiche dell´isola, abbinando le competenze professionali di Ispettore del Corpo Forestale della Regione Sardegna con gli studi storici, geografici e antropologici.
Alcuni anni fa ha pubblicato due pregevoli saggi editi da Carlo Delfino: Colpi di scure e sensi di colpa. Storia del disboscamento della Sardegna dalle origini a oggi (2013) e La mano destra della storia. La demolizione della memoria e il problema storiografico in Sardegna (2017).
Nel corso della nostra ricca conversazione, lo studioso ha discusso dei temi affrontati nei suoi due coinvolgenti saggi, apprezzati da un pubblico molto vasto di lettori, anche e soprattutto da chi, non addetto ai lavori, sovente trova determinati argomenti piuttosto ostici. Ha ripercorso le varie fasi che portarono alla distruzione dei boschi della Sardegna, isola un tempo rigogliosa, fertile e ospitale, che all'improvviso, nel corso dell'Ottocento, venne travolta dalle speculazioni finanziarie. Ha spiegato il motivo per cui alla pastorizia venne attribuita la responsabilità del disboscamento, le cui cause furono, invece, l'avanzata rapida dell'economia di mercato e del sistema coloniale europeo. Tutto questo determinò un mutamento antropologico radicale che stravolse il rapporto tra l'uomo e la natura: da madre viva, centro della vita della comunità, la natura divenne un prodotto economico da sfruttare e dominare.
L'antropologo si è soffermato molto sul problema storiografico sardo, tema de La mano destra della storia, indagando a fondo le origini dell'oscurantismo subito dalla millenaria storia della Sardegna, ingiustamente esclusa da quella italiana ed europea. Ha spiegato il motivo per cui sui libri di testo scolastici fino a qualche anno fa, tra le grandi civiltà antiche, non si parlava mai della civiltà nuragica, cui ancora oggi non è attribuita l'importanza che merita. Individua negli inizi del Novecento e negli anni '50 e '60, gli anni del boom economico, i due momenti critici in cui è stata attuata la demolizione della memoria storica della Sardegna.
Nelle sue parole un invito a tutti i Sardi a recuperare la loro memoria storica, investendo nello sterminato patrimonio storico-culturale dell'isola, una ricchezza straordinaria che oggi più che mai, se ben gestita e valorizzata, aiuterebbe a promuovere e ad incrementare il turismo culturale, dando uno slancio all'economia di questa terra ancestrale che ha donato all'Europa la più grande civiltà dell'Età del Bronzo del Mediterraneo occidentale.
Fiorenzo, nel 2013 ha pubblicato il libro Colpi di scure e sensi di colpa. Storia del disboscamento della Sardegna dalle origini a oggi (Carlo Delfino Editore), che nello stesso anno ha ricevuto il Premio Siro Vannelli per la "divulgazione della cultura ambientale e forestale in Sardegna". Il libro oggi è alla quinta ristampa. Come è strutturato questo lavoro? A cosa fa riferimento il titolo?
Questo libro ripercorre gli anni del disboscamento della Sardegna grazie a un lavoro interdisciplinare che vaglia i dati statistici, le testimonianze dell'epoca, i documenti, gli aspetti politici, economici, sociali e antropologici, i pareri degli esperti, in particolare dei botanici e dei naturalisti. Il saggio unisce in un unico apparato documentale quello che gli storici avevano scritto e raccontato sull'evento del disboscamento, ma gli storici hanno fatto solamente dei brevi riferimenti alla storia ambientale, non se ne sono occupati approfonditamente. Io parto dall'epoca nuragica e arrivo ai nostri giorni. Conferisco al testo un taglio antropologico, indagando i motivi storici e sociali che hanno portato alla deforestazione della Sardegna. Questa ricerca è durata sette anni.
L'espressione "Colpi di scure" riprende il titolo di un racconto meraviglioso di Grazia Deledda. Ho voluto aggiungere i "sensi di colpa" per ciò che in quel periodo è stato fatto alla natura della Sardegna: “colpi di scure” che hanno generato “sensi di colpa” talmente forti da riuscire a sradicare, anche dalla nostra memoria, il fenomeno del degrado merceologico delle foreste sarde.
Le fonti ci forniscono della Sardegna due immagini fortemente contrapposte: accanto a una Sardegna rigogliosa e fertile, troviamo descrizioni di una Sardegna arida, inospitale, brulla. Qual è la realtà?
Sì, noi abbiamo due immagini contrastanti della Sardegna: quella povera e arida e quella mitica e florida. Quest'ultima è stata tramandata dalle fonti classiche, soprattutto greche. Oggi sembrano entrambe irrealistiche e ideologiche. Vagliando, però, con metodo scientifico i dati botanici, statistici, storici, geografici e antropologici a disposizione, dovremo ammettere che, in realtà, il mito delle fonti classiche non è così fantasioso come si potrebbe credere. I boschi sopravvissuti in diverse località dell'isola rivelano la presenza di piante vetuste e gigantesche, residui di antiche e floride foreste, testimonianze viventi del manto vegetale che un tempo ricopriva l'isola. Le carte topografiche, inoltre, riportano numerosi fitotoponimi che provano la preesistente presenza di boschi in aree dove oggi sono scomparsi. Le fonti, inoltre, concordano: tutti i visitatori della Sardegna, dall'antichità fino all'Ottocento, narrano di un'isola ricchissima di boschi; tutti i visitatori, dal Novecento in poi, narrano di un'isola arida e povera di boschi. Nella percezione dell'ambiente dell'isola, quindi, la parte finale dell'Ottocento si pone come un momento storico responsabile di una cesura netta, una frattura che divide la Sardegna fertile di prima dalla Sardegna arida di poi. La Sardegna entra nell'Ottocento ricca di boschi e ne esce trasformata, arida e povera. Stando ai calcoli fatti, risulta nel corso dell'Ottocento una riduzione di almeno quattro quinti dei boschi della Sardegna. In quel momento storico la Sardegna trasformò la sua ecologia e si avviò a diventare il massimo esportatore di carbone vegetale.
Può ripercorrere brevemente le varie fasi che portarono alla distruzione dei boschi della Sardegna?
Ricostruire le vicende storiche, economiche e politiche che hanno portato alla marginalizzazione della Sardegna nel sistema mondo e alla conseguente distruzione dei suoi boschi, è lungo e complesso. Fino alla fine del '700, una politica riformatrice di ispirazione illuminista da parte dei piemontesi aveva prodotto alcune importanti riforme economiche e sociali, ma nel secolo seguente il Piemonte si cimentò in uno sforzo notevole di industrializzazione. Era, quindi, fondamentale reperire materie prime. La Sardegna era vista dal Piemonte come una regione ricca di materie prime. C'erano, però, diversi ostacoli allo sfruttamento delle risorse della Sardegna: vi erano i cosiddetti usi civici, usanza di derivazione feudale che consentiva al popolo di godere dei frutti del bosco per la sua sopravvivenza. Il barone, proprietario del feudo, consentiva al popolo questo rifornimento, in quanto necessario al mantenimento in vita della forza lavoro, quindi al pagamento delle rendite: legna per il riscaldamento e per le manifatture, strame per nutrire il bestiame, ghiande per i porci, selvaggina e frutti del bosco costituivano una fonte indispensabile alla sopravvivenza delle popolazioni. Per scardinare questo sistema ebbe inizio la stagione delle riforme, propagandata come una modernizzazione necessaria: i boschi, privatizzati, sarebbero stati curati e utilizzati meglio. Non fu così. Lo Stato piemontese, infatti, vendette i boschi ai privati, che li tagliarono a caso, spesso senza neppure finire di pagare allo Stato quanto pattuito. Così ebbero inizio distruzioni dissennate di interi boschi, fatte con il vivo dissenso delle popolazioni locali: il mercato si impadroniva dei boschi della Sardegna, le campagne entrarono nell'economia capitalistica. La stagione delle riforme piemontesi, iniziata nel 1820 con l'Editto delle Chiudende, mutò il rapporto tra l'uomo e il territorio, che divenne da comunitario a privato. La privatizzazione dei terreni si manifestò con l'appropriazione materiale dello spazio attraverso le recinzioni, i muri e il filo spinato. Questa invasione provocò nelle persone una forma di estraniazione dalla terra, che una volta veniva sentita come bene comune. Tutte le società tradizionali sparse per il mondo, nel loro adeguamento all'economia di mercato, trasformano il loro territorio seguendo un percorso tipico: privatizzazione della terra, semplificazione delle produzioni, che spesso arrivano a ridursi alla monocoltura, urbanizzazione selvaggia e deforestazione.
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Le conseguenze sono il dissesto ecologico del territorio e il mutamento antropologico e sociale della popolazione. L'equilibrio raggiunto durante i secoli di economia di sussistenza vedeva uomini e terra interdipendenti; l'agricoltura, priva dei fertilizzanti chimici, tendeva alla rigenerazione: pascolo, bestiame, cereali, leguminose, bosco, tutto si integrava in un sistema circolare, tutto veniva riutilizzato, la produzione dei rifiuti era inesistente. Con la trasformazione mercantile si produce una separazione tra i destini della terra e degli uomini. Il disboscamento della Sardegna è l'effetto dell'irruzione dell'economia di mercato e del sistema coloniale europeo.
Qualcuno, però, individuò nella pastorizia la causa di tutti i mali, attribuendole la responsabilità della mancata ricostituzione del patrimonio boschivo sardo...
La pastorizia ovina, da sempre attività fiorente e tradizionale in Sardegna, che ben si integrava con altre forme di allevamento, come quello suino, caprino e bovino, è stata posta all'indice come una delle principali cause della deforestazione. A inizio Novecento, a causa dell'ingresso della Sardegna nel mercato mondiale, con l'impianto dei nuovi caseifici laziali che esportavano il formaggio in America, avvenne un mutamento: i capi ovini aumentarono a dismisura nel giro di pochi anni e l'isola si avviò verso una produzione economica a prevalenza monoculturale. Accostando cronologicamente il disboscamento del XIX secolo, nelle sue diverse fasi di virulenza, e l'esplosione della pastorizia ovina, a cavallo del XX secolo, nella fase terminale delle operazioni di disboscamento, noteremo che i due fenomeni non possono essere cronologicamente sovrapposti, ma posti in successione: il disboscamento ha preparato lo spazio per la grande espansione della produzione ovina, predisponendo le condizioni ecologiche, sociali ed economiche per la definitiva espansione monoculturale degli ovini.
Come venne avvertito dalla popolazione questo mutamento antropologico così radicale che sovvertì il rapporto tra l'uomo e l'ambiente?
Rispondo a questa domanda facendo riferimento al romanzo "Il nostro padrone" di Grazia Deledda, in cui si descrive la svendita morale che accompagnò la frattura antropologica tra la natura e l'uomo nel periodo delle grandi speculazioni forestali: il boscaiolo sardo al soldo degli imprenditori stranieri, di fronte alla pianta da abbattere, ha un sussulto di coscienza. Del resto, il bosco era visto come un'entità viva in grado di produrre vita, crescita e spiritualità; quello rappresentato dal bosco è sempre stato un archetipo potente. Ad un certo punto iniziò a trasformarsi, fino a diventare una semplice miniera materiale: da elemento fondamentale nel ciclo vitale pulsante della vita di una comunità a semplice prodotto economico. Questo sta succedendo oggi in Amazzonia. Lo stile di vita occidentale distorce la percezione della natura come madre, come risorsa rinnovabile, e la sostituisce con i bisogni indotti, procurati dal consumismo e sostenuti dalla tecnologia: oggi le foreste del Pianeta vengono consumate dalle ruspe degli speculatori dell'industria della carne e del legname.
In anni più recenti come è stato affrontato il discorso relativo al consumo delle risorse naturali della Sardegna?
Il problema della gestione e del consumo delle risorse naturali del territorio isolano si è riproposto mezzo secolo fa. Vaste aree dell'isola sono state utilizzate dallo Stato italiano per l'industria pesante e come poligoni militari, sottraendo terreno per altri usi e, soprattutto, inquinando e avvelenando suolo, aria e acque. A partire dagli anni Sessanta la fascia costiera della Sardegna ha acquisito un eccezionale valore sul mercato mondiale, riproponendo quesiti sull'utilizzo del patrimonio ambientale e paesaggistico. Si sono scontrate ancora due opposte concezioni di sviluppo: uno sviluppo basato su modelli economici d'importazione, sul consumo del territorio e su un'idea consumistica del progresso; un altro basato sul sostegno delle vocazioni naturali del territorio e dei saperi locali.
Nel 2017, sempre per Carlo Delfino Editore, ha pubblicato il libro La mano destra della storia. La demolizione della memoria e il problema storiografico in Sardegna, che nel 2018 ha ottenuto il titolo di “libro dell’anno” nella sezione “saggistica” della XII edizione del Premio Letterario Osilo. Nel saggio affronta il tema relativo all’oscurantismo subito dalla storia sarda, considerata da sempre, dalla cultura cosiddetta "ufficiale", come una “storia minore” e di scarsa importanza. Fino a qualche anno fa, sui libri di testo scolastici non si faceva neppure menzione della civiltà nuragica; oggi troviamo qualche sintetico riferimento, ma in maniera piuttosto semplicistica e superficiale. Come è nata l'idea di scrivere un libro sul problema storiografico in Sardegna?
Mi ha sempre colpito l'anomalia di una storia antichissima, come quella sarda, scomparsa dalla cultura occidentale. Toccai con mano questa grave mancanza quando, alcuni anni fa, aiutai mio figlio, che allora frequentava le scuole medie, a fare una ricerca sulla civiltà nuragica. Notai con grande disappunto che nei libri scolastici non se ne faceva neppure menzione e men che mai nei programmi ministeriali. Nel libro ho voluto indagare il processo di nazionalizzazione culturale avvenuto in Sardegna, che ha portato la storia dell'isola a scomparire dall'orizzonte. La storia è uno straordinario strumento di potere nelle mani dei potenti: con la storia si possono spostare i flussi economici. Ciò ha condizionato pesantemente il corso del processo storiografico sardo. Questa forma di propaganda si concentra principalmente nel passaggio tra il testo elaborato nelle pubblicazioni scientifiche e le varie declinazioni popolari, che partono dalla scuola. È proprio qui che interviene l'egemonia culturale per gestire il dato e ribaltare completamente l'evidenza. La propaganda, infatti, arriva a negare anche cose evidenti. C'è un processo di nazionalizzazione culturale degli Stati-nazione, i più potenti contenitori di simboli che esistano al mondo. Nei processi culturali che derivano dalle pressioni per nazionalizzare, la simbologia gioca un ruolo fondamentale. La nazionalizzazione culturale entra nel nostro quotidiano attraverso un codice di simboli, senza che noi ce ne accorgiamo. La storia viene perciò tradotta in miti, e in simboli, dal processo di unificazione nazionale. Questa semplificazione storiografica non contempla la complessità alternativa dell'antica storia sarda. Ogni storia nazionalista parte da un mito di fondazione, e la fondazione dell'antica Roma con Romolo e Remo sono perfetti per la narrazione storiografica nazionale. I processi “nation building” sono complicati, e li spiego nel mio libro, ricorrendo ad una vasta bibliografia scientifica.
Nel libro individua due momenti in particolare in cui la storia e la memoria della Sardegna hanno subito quella che lei definisce una vera e propria demolizione. Ci spieghi meglio questo assunto...
La storiografia sarda è figlia del problema storiografico italiano: nel momento in cui gli Italiani si pongono il loro problema storiografico, sono consapevoli dell'importanza di darsi una storia che riesca ad unificare il popolo italiano. Per portare a termine questo processo di unificazione nazionale e culturale, si è esclusa la storia sarda, che era più antica, anticlassica e alternativa a quel processo. Due sono stati i momenti critici in cui è stata fatta scomparire la storia della Sardegna. Nel Novecento in Italia si doveva ricostruire una storia proiettandola indietro nel tempo. Gli storici puntarono tutto sul genio italico, sulle forme dell'arte e della letteratura, sulla spiritualità religiosa cristiana. In questa ricostruzione, la storia sarda che ruolo poteva avere? Era una storia eccentrica di un'isola in disparte, un'isola che faceva comodo considerare produttrice di materia prima piuttosto che di civiltà storica. La storia della civiltà sarda inizia molto prima della civiltà etrusca e della civiltà romana. L'influenza della civiltà nuragica su quella etrusca è stata taciuta o negata: nessun libro di storia dirà che la civiltà etrusca è stata influenzata da quella nuragica, perché così facendo si riporterebbe la Sardegna all'origine della storia italiana e questo primato non si poteva e non si può concedere alla Sardegna.
A quell'epoca, poi, c'era stata la vicenda vergognosa delle false Carte d'Arborea, il cui esito era stato quello di eliminare dalla storia d'Italia l'età giudicale sarda. Ammetto di nutrire qualche dubbio sugli esiti storiografici di questa vicenda. Non dico assolutamente che i falsi d'Arborea siano autentici, ma penso che l'utilizzo strumentale di questa vicenda meriterebbe uno studio approfondito. Ma questo è un argomento troppo lungo da affrontare in questa sede.
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L'antropologo Fiorenzo Caterini
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Il secondo momento critico della storiografia in Sardegna ha più a che fare con l'economia e con i flussi finanziari, meno con la nazionalizazione culturale del nostro paese. Negli anni '50 e '60 del
Novecento arrivò il boom economico, che portò con sé l'affermarsi di un'idea internazionalista e consumistica delle cose, un'idea che spazzava via tutto quello che era storico e tradizionale. Si avviò una trasformazione antropologica e sociale della Sardegna, importando e imponendo modelli di sviluppo da fuori, con la petrolchimica e l'industrializzazione forzata, che occorrevano all'Italia per decollare anche dal punto di vista industriale. La Sardegna era idonea per lo stoccaggio di determinate industrie pesanti, per via del basso tasso demografico. I flussi finanziari si accompagnano sempre a una propaganda pervasiva che crea egemonia culturale. La Sardegna è entrata nel vortice del boom economico con un ruolo che non aveva nulla a che fare con quello di matrice culturale del Paese. Evidenziare le sue tradizioni, e la sua storia unica a antichissima, era in contrasto con la politica dell'epoca, che inseguiva sia gli affari che un modello di sviluppo “modernista”.
Questi processi meritano un'analisi congiunta e approfondita che io ho provato a fare, con la massima onestà intellettuale e attenendomi sempre al dato scientifico, per spiegare la genesi di certi meccanismi, di certe modalità culturali, e per ricostruire una memoria che è stata manipolata.
Come è stato accolto questo pregevole saggio dagli ambienti della cultura ufficiale?
Con indifferenza, fastidio, a volte addirittura con una vera e propria ostilità. Sono riuscito a fare decine di presentazioni nell'isola, almeno una cinquantina, ma la censura nei miei confronti è stata molta, soprattutto da parte dei mezzi di informazione locali, per non parlare dell'accademia, a dispetto di tanta critica positiva, persino entusiasta, di gran parte del mondo della cultura sarda. Ma parlare scientificamente del problema storiografico sardo è ancora un tabù, purtroppo. In Sardegna ci sono forti retaggi culturali rispetto alla rivalutazione di tutto quello che è cultura, tradizione e storia, con forti pressioni provenienti dal mondo della cultura ufficiale, che interferisce fortemente sui processi di divulgazione del sapere. Molti sostengono che il desiderio di rivalutazione della storia sarda, soprattutto quella antica, sia un’invenzione, una mitizzazione in cui ci si rifugia per trovare consolazione alle delusioni del presente, o un voler aderire alla corrente indipendentista. Da antropologo ho cercato di individuare le cause della sudditanza culturale ed economica della Sardegna dal resto d'Italia, ho voluto capire il motivo dell'assenza della storia sarda, consapevole che la storiografia subisce forti condizionamenti di natura nazionale, politica ed economica. Questa anomalia di una storia scomparsa dalla cultura occidentale dovrebbe essere studiata non da un libero ricercatore come me, che faccio tutt'altro mestiere, ma da antropologi, archeologi, storici, sociologi, filosofi della scienza.
Perché nei libri di testo scolastici non si fa menzione della grandiosità della civiltà nuragica?
È grave che la civiltà nuragica manchi non solo nei libri scolastici, ma anche, e soprattutto, nei programmi ministeriali. Insisto molto sulla civiltà nuragica perché, fra i vari momenti storici attraversati dalla Sardegna, quello segnato dalla civiltà nuragica ha una valenza assoluta che va oltre i confini regionali e nazionali, riguarda la storia del Mediterraneo e dell'Europa: da lì parte la più grande civiltà dell'Età del Bronzo del Mediterraneo occidentale. È un tassello importante per comprendere la storia che viene dopo. Nei testi scolastici non arriva quello che viene prodotto nei luoghi scientifici. I libri di testo scolastici hanno una funzione educativa, devono educare gli studenti e le studentesse ad essere buoni/e cittadini/e. Di conseguenza, la narrazione storica che viene usata deve essere funzionale a questa progetto e processo educativo: tutto si basa sulle semplificazioni e la Sardegna è una complicazione inutile. Inserire, nella narrazione storica italiana, un elemento di complicazione come quello rappresentato dalla storia sarda, spiegando che la più antica civiltà d'Italia è quella nata in Sardegna, regione eccentrica, destinata alla petrolchimica e alle esercitazioni militari, significherebbe andare contro il sistema costituito, comporterebbe stravolgimenti immensi, per questo ci sono forti resistenze.
Adesso c'è un processo di rivalutazione, sebbene lento, della storia dell'isola, ma prima che la storia arrivi nei libri di testo e nei programmi ministeriali, occorre tempo e occorrono scelte politiche di rottura.
Perché nel titolo si parla di "mano destra della storia"? Cosa si intende con questa espressione?
Perché per la prima volta questo libro analizza i luoghi di produzione storiografica. Fino ad oggi gli studi si sono concentrati, in maniera critica, sui processi di socializzazione della storia, cioè su come in Sardegna molta storia sia stata utilizzata dalla società: si pensi alla mitizzazione degli Shardana o alla possibile identificazione di Atlantide con la Sardegna. Nessuno aveva studiato i luoghi di produzione della storia, quelli dove la storia viene prodotta. Ho voluto creare questa simbologia: la mano destra è la mano forte, la mano ufficiale del sistema culturale, intellettuale e storiografico, è la mano che costruisce la storia; ma la mano destra è l'esito di condizionamenti politici ed economici. Economia (si pensi ai flussi finanziari) e politica (si pensi al ruolo della scuola nella nazionalizzazione culturale di un paese) condizionano pesantemente il testo scritto dalla storiografia ufficiale, e questo è provato da tanti studi scientifici che io riporto (e ho il coraggio di riportare). La mano sinistra, invece, è quella che rimane un po' in disparte, è la storia alternativa, che anche se minoritaria, è l'unica che viene posta sotto la lente degli studi ufficiali e della critica. Si parla della mitopoiesi creata dalla pizzeria con il nome “shardana”, e non dei processi politici e culturali che stanno dietro la scomparsa della civiltà nuragica dai libri di testo, insomma. Una storiografia scritta solo dalla mano destra è incompleta e ignora una parte della storia che è rimasta oscura, quella parte che potrebbe scrivere la mano sinistra. Per la prima volta si mette sotto analisi la mano destra della storia, quella che ha alimentato il "complesso d'inferiorità" del popolo sardo, la sua sudditanza di tipo coloniale, il suo rapporto di forte subalternità e dipendenza economica dal resto dell’Italia.
Oggi in che modo i Sardi possono recuperare la loro memoria storica e investire nel prezioso patrimonio culturale che l'Isola custodisce da millenni?
Dovrebbero innanzitutto acquisire la consapevolezza che in Sardegna si trova un quinto dei siti archeologici che abbiamo in Italia, che a sua volta è il primo paese al mondo. La Sardegna, dunque, ha un primato mondiale, si potrebbe dire e, come già e stata definita da Lilliu, è un museo a cielo aperto. Ovviamente mi riferisco solo ai siti archeologici musealizzati, quindi una minima parte di quelli esistenti. I luoghi più visitati al mondo sono i luoghi della storia, i luoghi dell'archeologia, quelli che hanno un fascino irresistibile: la Grande Muraglia Cinese, Pompei, il Colosseo, Stonehenge, la Valle dei Templi, le Grandi Piramidi d'Egitto. La Sardegna potrebbe vivere di turismo culturale: la valorizzazione e la promozione del nostro immenso patrimonio culturale produrrebbe effetti di rilievo sull'economia regionale e sull'occupazione. I visitatori che hanno l'occasione di visitare i nostri siti restano stupiti per la bellezza dei nostri monumenti e spesso chiedono il motivo per cui siano misconosciuti e poco valorizzati. La scure dell’oscurantismo ancora produce risultati nefasti.
Quando uscirà il suo prossimo libro?
Sto lavorando a un romanzo antropologico che trae ispirazione dalle neuroscienze. Spero di ultimarlo entro la fine dell'anno. Inoltre, vorrei pubblicare un saggio sulla questione identitaria in Sardegna, ma ora non saprei dire quando riuscirò a concluderlo.
Quale messaggio si augura possa arrivare ai suoi lettori?
Mi auguro che i miei lavori vengano letti senza lasciarsi condizionare dalla corrente culturale del momento. Sia "Colpi di scure e sensi di colpa" che "La mano destra della storia" sono lavori metastorici, non seguono mode o stereotipi; li vedo come dei libri che hanno un senso e un valore anche in futuro. Li ho scritti con onesta e obiettività, essendo io slegato a qualunque tipo di interesse personale o di gruppo sociale, per non dire di potere. Ma questo i miei lettori lo sanno.
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