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venerdì, 29 gennaio 2021 11:10 |
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Laura con alcuni dei suoi bambini
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Dal nostro inviato
Francesca Bianchi
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L'attrice e scrittrice Laura Efrikian ha rilasciato una bella e lunga intervista a
FtNews .
Diplomata all'Accademia d'Arte Drammatica del Piccolo Teatro di Milano, ha lavorato nel teatro, in tv, nel mondo del cinema. La sua storia d'amore con Gianni Morandi ha fatto sognare generazioni di giovani. Elegante, raffinata, amante dell'arte e della cultura, nel corso della nostra lunga conversazione Laura ha aperto il cassetto dei ricordi, parlando dell'infanzia felice trascorsa con due genitori amatissimi che le hanno trasmesso il senso del dovere e l'importanza di valori di cui il nostro mondo tanto avrebbe bisogno.
Con commozione rievoca la storia del nonno Akop Ephrikian, che alla sua morte lasciò un baule al cui interno Laura trovò le lettere d’amore tra lui e la nonna Laura Zasso. Laura scoprì, così, che suo nonno era sopravvissuto al genocidio armeno e grazie all'aiuto di un servitore era riuscito ad arrivare a Istanbul e ad imbarcarsi sulla prima nave diretta a Venezia, dove venne accolto e curato dai Padri armeni dell'Isola di San Lazzaro. Lì divenne monaco mechitarista col nome di Padre Soukias. Un giorno conobbe la nobildonna Laura Zasso, di cui si innamorò perdutamente. Per lei si allontanò dalla congregazione mechitarista. I due si sposarono e insieme coronarono il loro sogno d'amore. Akop non amava parlare molto della sua vita: fino all'ultimo aveva voluto proteggere i suoi famigliari, risparmiando loro il racconto delle atrocità vissute. Orgogliosa delle sue origini armene, Laura Efrikian ha insistito molto sull'importanza della memoria, affinché mai cada l'oblio sul primo grande genocidio del Novecento, una delle pagine più tragiche della storia del secolo scorso che molti ancora ignorano. Il richiamo delle radici è talmente forte in lei che alcuni anni fa ha realizzato il desiderio di visitare l'Armenia, la terra da cui l'amato nonno è stato costretto a fuggire, una terra che è incisa in maniera indelebile nel suo cuore. Spirito cosmopolita - ama definirsi "cittadina del mondo" - sostiene con convinzione l'importanza di continuare a lottare, perché è inaccettabile che molti non sappiano nulla del genocidio armeno: noi chiediamo solo il riconoscimento del genocidio; nasconderlo vuol dire dimenticare e, se un orrore del genere viene dimenticato, può ripetersi.
Una luce si accende nei suoi occhi quando ci confida le emozioni che le dona l'impegno umanitario nella sua amata Africa, terra dove ha portato tutto il suo amore e il grande dono di prendersi cura degli altri, due qualità che costituiscono la forza di questa donna di straordinaria dolcezza, ma nello stesso tempo tenace e coraggiosa. In Kenya Laura è diventata la nonna di tanti bambini colpevoli solo di essere nati nel posto sbagliato. Per loro ha costruito pozzi e scuole, cercando di fare il possibile per migliorare le condizioni di vita di tante famiglie che vivono in condizioni di estrema miseria. Per loro ha organizzato campagne di raccolta fondi, ha venduto i piatti che ama dipingere, ha coinvolto amiche e amici sparsi in tutta Italia: fare il possibile per l'Africa è diventata una missione, una vera e propria ragione di vita. Colpiscono la sua generosità innata, la capacità di ascolto e comprensione del vissuto altrui, senza alcun tipo di giudizio moralistico.
Laura ha sorriso sempre alla vita con generosità e gratitudine e ancora oggi continua a farlo con l'entusiasmo di una ragazzina, invitando i suoi amati nipoti e tutti i giovani ad essere messaggeri di amore e generosità. L'amore salva il mondo, ama ripetere. E proprio grazie all'amore che ha seminato ovunque, questa combattente armata di bontà, tenerezza e un profondo senso della giustizia si è donata l'immortalità. Sono convinta che quando i cinque amati nipoti - due figli di Marco e tre di Marianna - gioia e orgoglio della sua vita, saranno ormai adulti e guarderanno con nostalgia le foto della loro nonna, saranno grati alla vita per aver avuto una nonna tanto speciale che ha cullato i sogni della loro infanzia, sussurrando loro dolci melodie d'amore; saranno fieri di ricordare che le braccia della loro amata nonna, dove tante volte hanno trovato il calore di un abbraccio, addormentandosi sereni, hanno coccolato anche tanti bambini africani abituati a vivere nella povertà assoluta. Allora, probabilmente, si accenderà in loro il desiderio di rendere onore al suo straordinario esempio di vita, intraprendendo il cammino da lei iniziato e rendendo, così, eterno l'amore che ha elargito in giro per il mondo.
Laura, lei è nata e cresciuta in una famiglia di artisti: suo padre Angelo Ephrikian, figlio dell'ex monaco mechitarista Akop Ephrikian, è stato violinista, compositore e direttore d'orchestra; il padre di sua nonna Laura, invece, era un pittore che ha ricoperto il ruolo di Direttore dell'Accademia di Belle Arti di Venezia. Che ricordo ha della sua infanzia? Come reagirono i suoi genitori quando comunicò loro di voler intraprendere la carriera d'attrice e quanto ha influito il loro esempio sulla sua formazione e sulla sua carriera?
Mio padre era un affermato direttore d'orchestra che ha riscoperto grandissimi autori veneziani del Seicento e del Settecento, tra cui Vivaldi. La mia è sempre stata una famiglia che ha dato tanta importanza all'arte, alla cultura, al lavoro. Io sono l'unica, in una famiglia di musicisti, ad aver intrapreso un'altra carriera. Da piccolina facevo danza classica. Avevo interessi insoliti per una bambina, come suonare il pianoforte. All'età di otto anni, al Teatro Comunale di Treviso ho visto la prima commedia di Goldoni, autore di cui avevo letto tutte le commedie. A casa avevamo una biblioteca ben fornita. Soffrendo d'insonnia, mi capitava spesso, in piena notte, di scendere le scale e arrivare in biblioteca. Una notte mia mamma, vedendo la luce che filtrava dalla porta, venne a cercarmi e mi trovò con un libro di Goldoni in mano. Avrò avuto 6-7 anni. Ero una bambina solitaria, per cui dedicavo molto tempo alla lettura, che è stata compagna fedele di tutta la mia vita.
I miei genitori hanno influito tantissimo sulla mia formazione. Casa nostra era frequentata da artisti e intellettuali; ricordo che ero affascinata da tutti i discorsi che facevano, nonostante capissi poco e niente. Quando dissi ai miei genitori che avrei voluto fare l'attrice, loro mi fecero subito capire che se volevo diventare qualcuno dovevo studiare, studiare e ancora studiare. Mio padre mi fece sostenere l'esame di ammissione alla Scuola del Piccolo Teatro di Milano con Giorgio Strehler, una delle scuole più serie. Entrambi mi hanno trasmesso il senso del dovere e l'importanza dell'impegno, dell'educazione, dello studio, del lavoro, pilastri irrinunciabili. Io compresi subito che non si poteva giocare con il lavoro e con lo studio. Questa severità mi ha motivato molto, spingendomi a dare sempre il massimo e a migliorarmi ogni giorno di più.
La mia è stata un'infanzia molto felice. Sono contenta di essere stata cresciuta da genitori severi che mi hanno trasmesso il culto dei valori veri. Ho cercato di fare lo stesso con i miei figli.
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L'inaugurazione di un pozzo
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Ha definito la lettura una fedele compagna di vita sin da quando era bambina. Nel corso della sua vita si è cimentata anche nella scrittura, pubblicando quattro libri: Come l'olmo e l'edera (MGC Edizioni, 2011), La vita non ha età (MGC Edizioni, 2013), Incontri (Spazio Cultura, 2017), Lettere a Laura dal mondo dei nessuno (Spazio Cultura, 2019), scritto insieme a Nino Mandalà. Quando è nata la passione per la scrittura? Ci presenti pure queste sue pubblicazioni...
Quando ero sposata con Gianni, la domenica andavamo spesso nella casa di campagna di Tognazzi, situata alle porte di Roma. Era frequentata da tanta gente. Lì conobbi lo scrittore Alberto Bevilacqua. Ricordo che cercavo sempre la sua compagnia, perché era una persona di grande cultura a cui potevo fare domande per saziare la mia curiosità. Mi piaceva l'idea che fosse uno scrittore, che consideravo il mestiere più bello del mondo. Un giorno Bevilacqua mi disse testuali parole: "Laura, ormai ti conosco, tu hai ottime qualità; se riesci a scrivere come parli, sei già una scrittrice. Devi solo affrontare una pagina bianca". Queste sue parole mi hanno dato forza, anche se ho impiegato dieci anni prima di mettermi alla prova. Il primo libro che ho scritto si intitola Come l'olmo e l'edera. Nel baule di mio nonno Akop Ephrikian, ex monaco mechitarista, insieme a tante lettere d'amore che lui aveva indirizzato a nonna Laura, trovai anche un medaglione con le loro foto, su cui nonno aveva fatto incidere l'espressione "come l'olmo e l'edera". Si tratta di un detto armeno: l'olmo è l'uomo al quale la donna si appoggia. Devo dire che non condivido molto questa espressione, perché non penso di dovermi aggrappare a nessuno come un'edera, anche se in diversi momenti della mia vita mi sono sentita un'edera e ho avuto bisogno di un olmo su cui appoggiarmi: sicuramente è stato un olmo mio padre, ma anche Gianni, quando sono nati i miei figli. Ci sono fasi della vita in cui ci si sente forti e in grado di poter offrire aiuto, mentre in altri momenti in cui si è più fragili si avverte il bisogno di appoggiarsi a qualcuno. Io ho scritto questo libro inserendo le lettere dei nonni, raccontando la storia della mia famiglia.
Questo libro insieme a un altro è diventato La vita non ha età. Mi sono accorta di essere più giovane in questi ultimi anni di quanto non lo fossi a vent'anni.
Con un editore di Palermo ho pubblicato Incontri. Si tratta di incontri interessanti e meno interessanti, ma anche incontri strani e buffi, avventure, gioie, dolori. In questo libro parlo anche degli incontri con Vittorio De Sica, Luchino Visconti, Pier Paolo Pasolini, Gian Maria Volonté e tanti altri grandi del mondo dello spettacolo che non ci sono più.
Nel 2019 è uscito il mio ultimo libro, intitolato Lettere a Laura dal mondo dei nessuno, un'opera che ho pubblicato con grande entusiasmo, perché mi ha aiutato a salvare una persona dalla depressione, una persona che con me si è aperta con cuore sincero, proprio come si fa con una cara amica. Nino Mandalà mi ha scritto delle lettere bellissime e commoventi.
Attualmente sto lavorando al prossimo libro, un'autobiografia di cui non voglio anticipare nulla. Spero solo di poterla pubblicare presto.
Poco fa ha menzionato il baule di suo nonno Akop, sopravvissuto al genocidio armeno. Per lei quel baule si è rivelato una fonte preziosa per ricostruire la storia della sua famiglia. Come è avvenuta la scoperta delle sue origini armene? Ci racconti pure qualche dettaglio della storia di suo nonno... Cosa ha provato quando ha saputo che suo nonno ha visto la sua famiglia morire a causa dei massacri perpetrati dai Turchi e fortunatamente è riuscito a fuggire lontano dall'Armenia e a raggiungere l'Italia?
Il mio cognome, in una cittadina piccola della provincia di Treviso, era un cognome insolito, strano. Ricordo che a scuola, quando le maestre, facendo l'appello, arrivavano al mio cognome, si fermavano chiedendosi che cognome fosse e come si pronunciasse. Venne anche a me la curiosità; iniziai a pensare da dove potesse venire. Alla fine lo chiesi a mio padre, il quale mi rispose che questo cognome così particolare veniva dall'Armenia. Soltanto dopo la morte di mio nonno, papà mi spiegò che nonno veniva dall'Armenia, una regione tra il mar Caspio e il mar Morto. Mi raccontò che i Turchi avevano massacrato gli Armeni e che nonno era riuscito a scappare grazie all'intervento di un servitore che lo aiutò ad arrivare a Istanbul. A Istanbul nonno cercò una famiglia amica che già viveva nascosta, per cui, non appena queste persone videro il bambino armeno, lo presero e lo misero sulla prima nave pronta a partire, che il destino ha voluto fosse diretta a Venezia. Lui arrivò lì e i Padri armeni dell'Isola di San Lazzaro l'hanno preso e curato. Lui divenne monaco col nome di Padre Soukias, poi si innamorò di mia nonna Laura, giovane veneziana di nobile famiglia. Mio padre mi disse che dopo il matrimonio i nonni si trasferirono a Treviso. Ho scoperto la storia di mio nonno Akop quando lui non c'era più. Nella sua grande villa aveva lasciato un baule chiuso con la preghiera che nessuno lo aprisse. Ho pensato che se lui avesse voluto veramente continuare a tenere il segreto in merito a queste vicende, avrebbe bruciato tutto, non le avrebbe lasciate in un baule che per me si è rivelato una miniera d'oro. Lui le ha lasciate lì, sperando che forse ci sarebbe stata una persona così curiosa da andare a vedere: quella persona sono stata io. In questo baule ho trovato la storia d'amore dei miei nonni, 66 lettere che si sono scambiati da quando nonna Laura si recò all'isola di San Lazzaro degli Armeni, a Venezia, e incontrò nonno, che allora era ancora prete, fino a qualche mese prima che si sposassero. La storia di nonno è sempre stata misteriosa e anche quello che abbiamo scoperto continua ad avere grosse lacune. Mio padre sapeva solo l'essenziale. D'altra parte, chi fugge da un genocidio difficilmente racconta l'orrore vissuto, le violenze subite; il più delle volte quelli della terza generazione non hanno mai sentito raccontare, ignorano certi particolari, perché il dolore di quello che le vittime di un genocidio hanno visto e subito è talmente grande che non si può raccontare, non si riesce a parlare.
Nonostante i Turchi abbiano fatto di tutto per cancellare il popolo armeno, oggi gli Armeni sono sparsi per il mondo e, ovunque si trovino, diffondono messaggi di pace, non nutrono sentimenti di vendetta. Perché, secondo lei, i Turchi si sono macchiati di crimini tanto atroci? Come si spiega tanto odio nei confronti degli Armeni da parte dei Turchi?
L'Armenia fu la prima nazione a proclamare il Cristianesimo religione ufficiale di stato. Gli Armeni erano mercanti straordinari e l'Armenia era una terra ricchissima: un Paese ricco e cristiano in un'enclave di musulmani. I Giovani Turchi volevano un paese tutto musulmano e hanno pensato di sterminare gli Armeni per liberarsene. Molti, però, non hanno dimenticato le loro radici, come recita il celebre proverbio "credevano di seppellirci, ma non sapevano che eravamo semi e saremmo ricresciuti". E così è stato, perché con la diaspora gli Armeni si sono sparsi per il mondo. Oggi ci sono comunità armene ovunque: in Europa, in America, in Canada. Oggi gli Armeni sono anche delle eccellenze in tanti campi. Nella diaspora hanno dimostrato che, pur sterminati, pur profughi, hanno saputo imporsi e affermarsi, ma sempre rifiutando l'odio ed essendo ambasciatori di pace.
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Alcuni anni fa è riuscita a visitare la terra delle sue radici profonde, la terra di suo nonno, realizzando uno dei suoi sogni più grandi. Che ricordo conserva del viaggio in Armenia? Cosa significa oggi, per lei, avere origini armene?
Ho un ricordo bellissimo dei giorni trascorsi in Armenia. Sono rimasta incantata e commossa per la loro straordinaria fede. Lì le chiese sono scolpite nella roccia. La visita del "Tzitzernakaberd", il memoriale dedicato al ricordo dello sterminio degli Armeni, è stata molto toccante. Per la prima volta ho sentito di odiare i Turchi di allora, responsabili di aver sterminato nella maniera più atroce un milione e mezzo di armeni. L'esempio straordinario degli Armeni, però, mi ha portato a vergognarmi di aver provato odio, il sentimento più ignobile che esista, perché gli Armeni sono portatori di pace, hanno una grande forza interiore. Io mi sento armena, però mi sento anche italiana: sono figlia di due patrie, quella in cui sono nata e quella delle mie radici. Mi sento come William Sarojan, scrittore di origini armene che disse di sé: anche se scrivo in inglese e sono americano di nascita, io mi considero uno scrittore armeno. Sono fiero dell’onestà, del coraggio, della semplicità e dell’intelligenza del mio popolo. Chi ha origini armene sente fortissimo il richiamo delle radici, perché non vogliamo che si annullino dei popoli, delle persone. Per me avere origini armene significa continuare a lottare perché si parli del genocidio armeno. Noi chiediamo solo il riconoscimento del genocidio: nasconderlo vuol dire dimenticare e, se un orrore del genere viene dimenticato, può succedere un'altra volta. Se i Turchi si sono macchiati di crimini così orrendi e non hanno mai chiesto scusa, vuol dire che si potrà ripetere. Io questo non posso tollerarlo. Se non si chiarisce questa storia, non ci sarà mai libertà. Noi lotteremo fino alla fine perché i Turchi ci chiedano scusa.
Alla fine degli anni Novanta nella sua vita è arrivata l'Africa, e lei si è ritrovata "nonna" di tanti bambini kenyòti, a cui da anni dona amore, combattendo con tutte le sue forze per la loro causa. Come è iniziata questa "missione laica" in Africa?
Nel 1992 andai a Malindi per puro caso. Quell'anno, infatti, dovevo partire per Cuba con alcuni amici. Un giorno il mio commercialista mi disse di avere a Malindi una casa con quattro bagni, quattro camere, una piscina e con del personale di servizio regolarmente stipendiato. Mi disse di rimanere lì quanto volevo; lui, purtroppo, a causa degli impegni di lavoro, non riusciva mai ad andarci. Così decisi di cogliere al volo questa opportunità. Durante quel viaggio venni a sapere della costruzione di un villaggio a Mambrui, a 20 km Malindi. Mi innamorai a prima vista di una piccola e graziosa casetta, che subito decisi di comprare e che oggi è la mia oasi di pace. Dopo i primi 20 giorni di safari, presi possesso di questa casa. Un giorno vidi un bambino che correva e cadde terra. Mi spaventai, pensando si fosse fatto male. Mi avvicinai a lui per aiutarlo a rialzarsi. Ricordo ancora il sorriso che mi fece, dicendomi, con una dolcezza che mi conquistò in un attimo: "Mamma, mella!" (voleva una caramella). Mi prese per mano e mi accompagnò a visitare la sua casa, una baracca. Poi, un giorno, in maniera del tutto casuale, mi trovai a parlare con Agostino, il mio "houseboy". Lì gli "houseboys" fanno quello che qui in Italia fanno le donne di servizio; le donne lì non fanno le domestiche, svolgono solo i lavori pesanti. Questo houseboy, che adesso è un pastore della Chiesa Battista del Calvario, aveva fatto il seminario, per cui parlava un po' italiano. Gli chiesi dove vivesse e quanti figli avesse, e gli dissi che avrei avuto piacere di andarlo a trovare a casa. Quando mi rispose di vivere in una capanna, mi sentii morire: non mi capacitavo di non essere riuscita ad aprire gli occhi prima. Io, passando, vedevo queste capanne in mezzo agli alberi, ma per me era folklore. Agostino mi svelò un mondo che noi turisti non vediamo, un mondo che sta nelle capanne, un mondo fatto di povertà estrema. Io sono rimasta imprigionata in questi racconti. Andai a visitare il suo villaggio, entrai nella sua capanna, conobbi la sua famiglia. A quel punto compresi che di folklore non c'era nulla, c'era solo tanta povertà: non avevano l'acqua, non c'era il bagno, le donne portavano in testa taniche da 25 litri, facendo chilometri e chilometri sotto il sole cocente con un figlio legato davanti e uno legato dietro. Con 25 litri una famiglia deve lavarsi, lavare i panni, lavare i bambini, preparare da mangiare. Quanto possono durare quei 25 litri? Subito pensai che fosse fondamentale portare l'acqua a questa gente, per questo ho iniziato a costruire i pozzi. Il primo l'ho fatto per Agostino. Anche mia mamma mi ha spinto a fare qualcosa. Mi diceva sempre che avevamo ricevuto tanto dalla vita e dovevamo rendere in qualche modo. I colonizzatori hanno distrutto l'Africa, hanno reso schiavi gli africani. Ho iniziato a detestare l'Europa. Il Kenya è ricchissimo, riceve aiuti dall'America, potrebbe far star bene tantissima gente, invece il denaro si ferma a Nairobi e a Mombasa, a Malindi arrivano gli spiccioli.
Ha sempre detto che l'incontro con un medico di Medici Senza Frontiere è stato fondamentale per capire come rendersi utile in Kenya...
Sì, un giorno ho avuto la fortuna di incontrare un medico di Medici Senza Frontiere. Gli ho chiesto cosa dovessi fare e in che modo dovessi comportarmi quando ero in Kenya, per non sprecare tempo. Lui mi rispose di non aspettare che fosse quella povera gente a dirmi di cosa avesse bisogno, perché spesso l'umiltà e la grande dignità impediscono di venire a chiedere aiuto. Questo medico mi disse una frase che ancora risuona nella mia testa: "sii tu a bussare alla loro porta e a chiedere loro di cosa hanno bisogno". Questo è stato un grande insegnamento che mi ha aiutato molto: ancora oggi, prima che loro mi domandino qualcosa, con gli occhi sono io a chiedere di cosa abbiano bisogno.
Oggi, grazie a lei, che è riuscita a coinvolgere amiche e amici in tutta Italia, tante persone aiutano i "suoi" bambini africani. Come avviene la raccolta fondi da destinare al Kenya?
Ho creato una pagina Facebook dove posto tutte le iniziative che organizzo per l'Africa: mercatini solidali, partite di burraco di beneficenza, presentazioni di libri. Grazie a queste iniziative è stato possibile realizzare un'importante raccolta fondi da destinare ai miei bambini africani. È impagabile l'emozione che provo ogni volta che questi bambini mi guardano; nei loro occhi leggo felicità: hanno già la sensazione che io possa portare loro qualcosa di buono e questo mi riempie di gioia e mi fa fare tutto con entusiasmo. Mi occupo di loro come meglio posso. Sono disposta a tutto, pur di portare in Africa un sacchetto di soldi e medicine per chi ne ha bisogno. Mi voglio far perdonare di appartenere a un mondo ricco, vecchio, insensibile, un mondo fatto di gente attaccata ai soldi. Ho coinvolto anche gli amici; non mi sono vergognata e non mi vergogno di chiedere aiuto. Dico sempre che non bisogna donare per forza cifre enormi: voglio che tutti diano poco, anche cinque euro, perché quel poco può fare tanto.
Come trascorrono le sue giornate quando è in Africa? Cosa prova quando deve lasciarla?
Quando sono in Africa mi rigenero: non c'è il telefono che squilla, non c'è la tv, non c'è il giornale. Ho sempre tante cose da fare lì. La sera spesso alle 9 mi chiudo in casa e con il rumore dell'oceano, che è una musica per le mie orecchie, mi viene voglia di scrivere. Quando lascio l'Africa piango, perché non so se potrò tornare ancora. Ogni volta è un addio. Porto sempre con me una moneta con la promessa che non potrò non tornare. Adesso è quasi un anno che non vado; con il Covid, purtroppo, non posso partire, ma non vedo l'ora di tornare dai miei bambini.
Prima ha detto che sua madre l'ha esortata a darsi da fare per l'Africa. Cosa le diceva? È mai riuscita a portarla con sé in Kenya?
Mamma non è mai venuta in Kenya, ma era contenta di quello che stavo facendo lì per tanta gente. Mi sembra ancora di sentire le sue parole: " Non voglio una tomba, voglio essere cremata: le case si costruiscono per i vivi, non per i morti; la mia casa è la terra. I soldi che ti lascio dalli a questi giovani, costruisci case per loro". La ricordo con tenerezza infinita; era una donna straordinaria, generosa, ma anche una vera combattente. Se sono riuscita a fare tutto questo per l'Africa, lo devo anche e soprattutto all'esempio di vita dei miei genitori, che sin da piccolina mi hanno trasmesso l'arte dell'accoglienza, dell'essere sempre a disposizione di chi ha bisogno ed è meno fortunato
Quando parla ai suoi nipoti dell'Africa, come reagiscono? I suoi figli, invece, cosa le dicono?
Marianna e Marco sono dalla mia parte, anche se i primi tempi, scherzando, mi dissero: "Mamma, ricorda che i soldi prima o poi finiscono. Cerca di darti una calmata, perché se continuerai così, un bel giorno ti troveremo sotto i ponti". Sono fiera di loro, non mi hanno mai dato un dispiacere. Quanto ai miei cinque nipoti, una volta sono venuti in Africa con me. Loro si stupiscono, ma non hanno ancora la capacità di capire fino in fondo cosa sia la povertà. Magari, quando saranno più grandi, rivedendo le foto, ricorderanno quello che ho fatto e si daranno da fare anche loro, continuando il cammino da me intrapreso. Quando non ci sarò più, vorrei tanto che i miei nipoti si ricordassero di me attraverso le parole che dico sempre loro: la cosa più importante della vita è la generosità, l'amore per tutti gli uomini, per la natura, per la vita; l'amore tiene in vita tante persone. L'amore salva il mondo.
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