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Ivano Dionigi: Lucrezio, Seneca e noi

giovedì, 04 aprile 2019 23:33

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Francesca Bianchi
FtNews ha avuto l'onore di intervistare il prof. Ivano Dionigi, professore ordinario di Lingua e letteratura latina all'Alma Mater di Bologna, di cui è stato Rettore dal 2009 al 2015.
Fondatore e direttore del Centro Studi "La permanenza del Classico" dell'Università di Bologna e Presidente della Pontificia Accademia di Latinità, il noto filologo recentemente ha pubblicato il libro Quando la vita ti viene a trovare. Lucrezio, Seneca e noi, dando la parola a due grandi figure della classicità: Lucrezio e Seneca.
Dopo aver illustrato le opposte concezioni della vita e del mondo dei due, richiamando le filosofie di cui sono seguaci, rispettivamente l'Epicureismo e lo Stoicismo, l'illustre latinista entra nel vivo dell'opera, creando, con una brillante intuizione, un dialogo immaginario tra due figure titaniche che hanno resistito indenni ai tempi e alle mode. Così lontani da noi, eppure vicinissimi a noi e alla nostra epoca, Lucrezio e Seneca ci hanno preceduti nelle domande e oggi ci esortano a "leggere dentro", ad interrogare la nostra anima, riscoprendo quel silenzio che spesso nel chiassoso logorio della nostra epoca tendiamo a reprimere.
Immergendosi nella lettura di queste pagine, si ha davvero l'impressione di vedere i due grandi pensatori mentre discutono delle questioni ultime della vita che, a distanza di millenni, sono sempre le stesse. Sicuramente sono diverse le situazioni, è diverso il contesto, ma l'uomo è sempre lo stesso con le sue angosce, le sue paure, le sue inquietudini, le sue speranze.
Così prepotentemente attuali e immortali, questi due giganti del mondo antico, che il prof. Dionigi fa rivivere magistralmente nelle pagine del libro, ci prendono per mano e ci guidano nel mare burrascoso ed incerto della vita, rischiarando con la luce del loro pensiero il buio che sempre più spesso pervade i nostri tempi.

Professor Dionigi, come è nato questo libro? Perché quando la vita ti viene a trovare? Cosa sottintende questa espressione?
E' un'espressione che amo. Quando ci sono persone che non mantengono i patti, lasciando un senso di delusione, è spontaneo esclamare "tanto, prima o poi, la vita li va a cercare!". Io ho voluto addolcire il titolo del libro, usando il verbo "trovare", anziché "cercare". Nel dialogo Lucrezio rivolge a Seneca queste parole, aggiungendo che alla fine la vita gli ha presentato il conto. Quando la vita ti viene a trovare, ti poni tante domande fondamentali riguardo alla morte, al credere e al non credere, al senso della vita. Negli affari, nella professione, nella politica ci si può nascondere, ma di fronte alle domande ultime, non si può fare finta di nulla. Lucrezio e Seneca da due prospettive diverse e rivali del mondo ci aiutano a capire meglio.

A quando risale il suo primo incontro con questi due autori? Perché, tra i tanti classici, ha scelto proprio Lucrezio e Seneca?
Sono i due autori che ho frequentato maggiormente, quelli che più hanno segnato il mio percorso di studente prima e di studioso poi. Già al ginnasio, mosso da una curiosità tipicamente giovanile, li leggevo con interesse. All'università li ho ritrovati, anche se, arrivato alla fine dei miei studi universitari, nei confronti di Seneca avvertivo una lacuna culturale e un debito intellettuale che avrei dovuto saldare. L'incontro vero con Lucrezio, invece, fu proprio all'università. Discussi una tesi dal titolo Teologia e riflessione in Lucrezio ed Epicuro. Nelle scelta di Lucrezio influì senz'altro la temperie culturale di quegli anni: la novità concettuale e il vigore polemico del De rerum natura si sposavano bene con il ribellismo e l'antagonismo dei primi anni Settanta. Ho sempre avuto l’impressione, però, che un autore come Lucrezio non poteva essere confinato in una tesi di laurea. Avvertivo di non essere entrato dentro il testo, di esserne rimasto sulla soglia.
Lucrezio e Seneca sono due autori dal pensiero forte perché hanno segnato la storia del pensiero europeo con la curiosità della conoscenza, la radicalità della ragione, la novità della lingua e, soprattutto, perché sono simboli e paradigmi di due concezioni e tradizioni rivali del mondo. Divisi e antagonisti su tutto: uno pensa più a capire, l'altro a credere; uno più a impegnarsi, l'altro a ritirarsi; uno è il baluardo della vita contemplativa, l'altro della vita attiva, uno crede più al progresso, l'altro meno. Lucrezio e Seneca hanno scritto parole durature e guadagnato quella sopravvivenza che l'uno negava e l'altro desiderava.

Nella seconda parte del libro sembra di assistere ad una vera e propria rappresentazione teatrale in cui, attraverso un dialogo immaginario che tocca vette altissime, le ragioni di Lucrezio si scontrano in maniera vivida e incalzante con quelle di Seneca. Come è nata l'idea di far dialogare questi due giganti dell'antichità?
Io credo che gli autori vadano conosciuti con le loro parole, senza il filtro della critica. Mi è sembrato naturale farli incontrare nella forma ravvicinata e viva del dia-logo, dove la parola e la ragione (logos) dell'uno incrociano ed attraversano (dia-) la parola e la ragione dell'altro. E proprio in forma drammaturgica il prossimo 20 giugno questo dialogo esordirà in prima nazionale al Teatro Alighieri di Ravenna all'interno della programmazione del Ravenna Festival (interpretazione e regia: Enzo Vetrano e Stefano Randisi).

Qual è la grande rivoluzione operata da Lucrezio? Cosa si può dire circa la novità della sua poesia?
Lucrezio, sulla scia di Epicuro, è stato il primo dei classici ad oltrepassare e a infrangere il limite. Lucrezio ha delegittimato il limite. A Roma c'erano due parametri cui bisognava attenersi: uno era quello del finitum, in base al quale era positivo tutto ciò che era finito, chiaro, visibile. Lucrezio dice che il pensiero va al di là del mondo e prefigura infiniti mondi possibili, abolendo l'antropocentrismo stoico. Il secondo parametro era quello del notum: Roma era il regno del notum, del mos maiorum, del costume dei padri, della tradizione. A Roma si poteva intraprendere qualsiasi impresa, purché ci fosse un precedente, un exemplum. Contrapposto a notum è novum. Lucrezio rimuove e dissacra il notum e scrive un poema sulle res novae, minando alla base i due capisaldi dell'ideologia stoica e dell'identità romana: l'impegno politico (negotium) e la pratica religiosa (religio), il connubio tra il trono e l'altare.
Lucrezio afferma che è a causa della loro ignoranza e della paura della morte che gli uomini credono negli dèi, intraprendono la carriera politica, bramano potere e ricchezze. Prima di Freud Lucrezio aveva detto che il potere che noi cerchiamo di perseguire e l'attaccamento alla religione sono alimentati dalla paura della morte. Lucrezio asserisce che se gli uomini comprendessero l'origine dei fenomeni naturali, capirebbero che non c'è Zeus dietro il tuono e il fulmine e non avrebbero paura delle tenebre come i bambini. Il male più grande è l'ignoranza, di cui sono vittime anche i filosofi, i quali, quando la vita scorre felicemente, sono laici, quando, invece, subentrano le avversità, sono ricattati dalla paura della morte e diventano credenti.
La storia, scritta dai vincitori, non è stata amica con Lucrezio che, vittima della congiura del silenzio, è stato ignorato e bandito per secoli. Il testo lucreziano riapparve soltanto nel 1417, scoperto da Poggio Bracciolini in un monastero nei pressi di Costanza. Da allora questo manoscritto ha influenzato l'arte di Botticelli, la filosofia di Giordano Bruno, i pensieri di Montaigne, la poesia di Tasso e Foscolo, il pensiero politico di Machiavelli, ha suscitato l'interesse e l'attenzione di Leopardi, Einstein.
Dal punto di vista linguistico, invece, quale fu la grande novità del De rerum natura?
Lucrezio, consapevole di dover cambiare il mondo non con le armi, ma con le parole, confessa di creare, durante la "veglia delle notti stellate" (noctes vigilare serenas), quelle parole nuove, inaudite, rivoluzionarie che gli consentissero di diffondere nella tradizionalista Roma repubblicana idee nuove, inaudite, rivoluzionarie (res novae). A fronte della novitas rerum Lucrezio ha avuto bisogno della novitas verborum. Lucrezio dovette scontare la egestas, l'indigenza, non la povertà della lingua latina. Lucrezio applica agli atomi, ai principi della materia e del cosmo, i principi propri della grammatica, le lettere dell'alfabeto che presiedono alla formazione delle parole: concursus (incontro, combinazione), motus (movimento), ordo (ordine), positura (posizione), figura (forma). Instaura una corrispondenza tra gli elementa vocis (lettere) e gli elementa mundi (atomi), per cui il poema si configura come un'esecuzione linguistica del cosmo. Il trasferimento della terminologia grammaticale alla terminologia atomistica consente la leggibilità del cosmo e proietta all'origine del tutto il modello alfabetico. La lingua è modello della realtà, il testo del cosmo, l'etimologia dell'atomologia.

Quanto a Seneca, quale fu il suo atteggiamento nei confronti della egestas della lingua latina?
Seneca, di fronte all'indigenza della lingua latina rispetto a quella greca, attuò anch'egli una rivoluzione linguistica: attribuì alle parole un significato nuovo rispetto a quello abituale, operando, così, il loro passaggio dall'ambito concreto a quello astratto. La lingua dei Romani era all'origine una lingua di agricoltori e di soldati, non di poeti e filosofi. Di qui la sua opera di riconversione della lingua latina e di trasferimento dei significati dal mondo esteriore (giuridico, politico, militare, economico) a quello interiore, ovvero la creazione di quel linguaggio dell'interiorità che l'uomo europeo assumerà come medicina dell'anima, come psicoterapia - per citare Montesquieu - quando gli capita una disgrazia. Seneca è stato definito un grande psicoterapeuta.

Le famose sententiae di Seneca, con la loro pregnanza fulminante, oggi sono conosciute ed usate anche da coloro che non hanno mai studiato la lingua latina...
Le sententiae senecane più facilmente persistono nella memoria, piegano la volontà, curano l'animo. Questi moniti, facilmente memorizzabili, erano solitamente posti a inizio o a conclusione di un ragionamento con la funzione di convincere l'interlocutore a seguire l'insegnamento filosofico e il perfezionamento morale. La loro incisività li ha resi proverbiali e fruibili dai diversi linguaggi: da quello dell'interiorità, ereditato da Agostino, Petrarca, Montaigne, a quello del business, del marketing, dei social media dei nostri giorni. Seneca oggi sarebbe un massmediologo, un grande protagonista di twitter, un perfetto titolista.

Quale idea della felicità e quale piacere propongono le dottrine epicurea e stoica? Qual è la concezione di Lucrezio e Seneca sull'argomento?
Un piacere che si identifica nella mancanza di dolore nel corpo e nell'assenza di turbamento nell'anima. Un piacere fondato sulla scienza della natura e inseparabile dalla virtù. Per Epicuro il valore fondamentale da perseguire è l'imperturbabilità, per cui è indispensabile rimuovere tutto ciò che ci turba: dalla passione amorosa, che Lucrezio definirà "contro natura, mostruosa", alla politica, fino alla religione con la sua visione antropomorfica degli dei. Il piacere è principio e fine della vita felice. Lo stoicismo, invece, aveva un'altra concezione della felicità. Seneca poneva il culmine del bene e di una vita felice nel "vivere secondo natura", un ideale da intendere come adesione alla ragione universale e alle leggi che governano la natura, ma anche come perfezione individuale da conseguire attraverso la sapienza e la virtù, qualità immortali che rendono l'uomo simile a dio. In questa riduzione delle ragioni soggettive dell'individuo a quelle necessarie del cosmo, lo Stoicismo identificava fatum e voluntas, physis e ratio, microcosmo e macrocosmo. Va detto, inoltre, che Seneca identificava la felicità non solo con la sapientia, con la conoscenza del bene, ma anche con la virtus, con la pratica del bene, smentendo, così, l'intellettualismo etico socratico, che identificava virtus e veritas, e dichiarando che l'azione, al pari della contemplazione, è momento essenziale della virtù e del nostro destino. La virtù, infatti rende il saggio felice anche nelle avversità. Il segreto per una vita felice è coltivare la constantia (stabilità), la virtù per eccellenza del saggio, e rifuggire la levitas, la volubilità, il primo vizio del populus, la massa informe, indistinta.
La felicità si iscrive e si compie nell'orizzonte del presente ed esclude il futuro e l'attesa e, quindi, la speranza, considerata un dulce malum, un dolce inganno. Qui convenivano sia l'etica epicurea che quella stoica. Nella speranza, infatti, si celano la cupido e il timor che minacciano l'ideale dell'impassibilità (apátheia), il corrispettivo dell'imperturbabilità epicurea (ataraxia). Il saggio vivrà non sperando né temendo (nec spe nec metu), chiuso nella sua visione ciclica del mondo e del tempo, in un eterno ritorno che diffondeva un'aura di pessimismo.

Ma Seneca non sembrerebbe un campione di coerenza...
Seneca aveva sperimentato la vita attiva: ha fatto il consigliere di Nerone nel quinquennio 54-59; è stato uno degli uomini più influenti degli inizi dell'Impero. Ad un certo punto della sua vita, lui, che aveva sempre contrapposto il negotium all'otium, sostenendo che l'uomo si caratterizza per l'impegno nella Res publica e nel principato, scrisse un dialogo intitolato De otio, un inno alla vita ritirata.

Seneca come giustificò questa "conversione"?
Al discepolo Sereno, che proprio da Seneca era stato convertito alla vita attiva e che ora accusava il maestro di aver tradito i principi cardine della filosofia stoica, il filosofo risponde di essere fedele, leale e soprattutto rispettoso nei confronti dei principi dei suoi maestri. Zenone stesso, infatti, aveva affermato che in caso di impedimenti e situazioni eccezionali la priorità stoica dell'impegno politico decade, e il saggio è legittimato ad astenersi dalla politica. Seneca, però, fa di più: per questa scelta dell'otium rivendica la propria ortodossia stoica e la fedeltà ai maestri, definendo l'otium non come negazione del negotium, ma come sua inedita possibilità di espressione. Con l'impegno politico, secondo il filosofo, si può agire (agere) come civis e giovare (prodesse) soltanto alla Res publica minor, ovvero alla nostra città anagrafica, al nostro comune di nascita o di residenza; con l'otium, invece, ponendoci tutti i quesiti fondamentali sulla vita, sulla morte, sulla cosmologia, sulla natura degli dèi, sulla felicità, si può agire come sapiens e giovare a tutti gli uomini che abitano la , la grande comunità universale che riunisce uomini e dèi. Quello di Seneca è un otium militante, che si configura come forma superiore di negotium e che caratterizza il saggio stoico come cittadino del mondo.

Seneca ha accettato il compromesso con il potere, rendendosi complice dei delitti e delle nefandezze di Nerone. Nel Medioevo si ipotizzò l'esistenza di due Seneca: uno onesto e virtuoso, l'altro corrotto e colluso con il potere. Eppure è stato oggetto di grande interesse da parte dei Cristiani e viene addirittura rappresentato come antesignano del cristianesimo. Quanto c'è di vero in tutto ciò?
San Girolamo, colui che diffuse la falsa notizia che Lucrezio, reso folle da un filtro d'amore, si suicidò a 44 anni, arruolò Seneca nel "catalogo dei santi"; i Padri della Chiesa lo definirono noster. E' stato inventato un carteggio, assolutamente falso e risalente al IV secolo, tra Seneca e San Paolo, alimentato dal fatto che Gallione, fratello di Seneca e governatore dell'Acaia, prosciolse Paolo dalle accuse dei Giudei di Corinto. In realtà, esaminando attentamente i testi senecani e confrontandoli con quelli cristiani, si comprende bene che Seneca non è solo ante-cristiano, ma anche anti-cristiano: testimone di massima discontinuità e divaricazione tra il pensiero pagano e il messaggio della rivelazione, tra la volontà umana e la grazia divina. Con uno sforzo titanico il sapiens stoico di Seneca tenta l'assalto al cielo e vuole rendersi non solo simile, ma anche superiore alla divinità - quella divinità che Lucrezio nega con la sua ratio - perché egli può anche soffrire, mentre Dio è al di fuori della sofferenza. Tutto ciò è lontano anni luce dal messaggio cristiano.
Leggendo il libro, sembra di scorgere una sua simpatia per Lucrezio. Quale dei due grandi pensatori sente più vicino alla sua sensibilità?
Di Lucrezio mi ha sempre colpito l'estrema solitudine a cui è stato condannato. E' stato sempre vittima e ho cercato - per così dire - di rendergli giustizia. Sono, però, convinto che nella vita nessuno di noi possa essere interamente Seneca o interamente Lucrezio. Ogni volta che ci si schiera per l'uno, si è assaliti dal dubbio che la ragione stia con l'altro, perché ambedue hanno scritto per noi e di noi. Forse dobbiamo essere contemporaneamente sia Lucrezio che Seneca, perché entrambi sono il simbolo della duplicità e della bigamia del nostro pensiero e della nostra anima.

Perché rivolgersi ai classici oggi? Cosa possono insegnare autori così lontani da noi?
Il messaggio più importante è che ci forniscono le domande, ma non ci risolvono i problemi, la loro forza è nell'interrogare. Noi dobbiamo rivolgerci ai classici non per trovare le risposte, perché ognuno di noi deve darle in base ai propri tempi, alle proprie esperienze. In un'epoca come la nostra, in cui tutto è soggetto al presente e a risposte immediate, ciò che manca è il porsi domande. I classici ci hanno preceduti nelle nostre stesse domande. Se il logos ci distingue dagli animali, i classici ci insegnano a parlare bene, a porre le domande, a cogliere più punti di vista. Flaubert dice che «Quando gli dei non c'erano più e Cristo non ancora, tra Cicerone e Marco Aurelio, c'è stato un momento unico in cui è esistito l'uomo, solo». Ecco, Lucrezio e Seneca hanno sperimentato, in solitudine e in autonomia, cosa significa sopportare la verità quando la vita ti viene a trovare. Lucrezio e Seneca sono interlocutori credibili e utili perché fanno il controcanto al presente e ci proiettano nelle dimensioni profonde dell'intelligere (nel duplice significato di "cogliere (legere) il dentro (intus)" e "la relazione (inter) delle cose"), dell'interrogare (ossia dell'abitare le domande), dell'invenire ("scoprire", nel duplice significato di "trovare" quanto di notum abbiamo sotterrato e di "inventare" quanto di novumci viene richiesto)

Il latino, quindi, è tutt'altro che una lingua morta, ha ancora molto da insegnarci...
Il latino, mater certa della nostra cultura europea, può insegnarci il primato della parola, la centralità del tempo, la nobiltà della politica. Facciamo un cattivo uso delle parole perché non ne conosciamo il significato. Per conoscere il significato vero, autentico delle parole dobbiamo risalire alla loro origine, alla nostra lingua madre, il latino. Oggi è fondamentale capire il valore delle parole; abbiamo bisogno di una ecologia linguistica che ci faccia scoprire la differenza tra vocaboli e parole. L'attuale incuria delle parole ha fatto sì che le nostre parole, derubricate a vocaboli, smarrissero la loro identità e capacità comunicativa.
I classici ci aiutano a recuperare la dimensione del tempo, che i giovani hanno perduto, tutti polarizzati sul presente, privi di una prospettiva del futuro. Il latino ci apre il tempio del tempo.
Il latino ci ha regalato l'espressione Res publica: la parola più bella, più completa, intraducibile. Avere nozione della parola, del tempo e della politica ci renderebbe tutti migliori.

Professore, lei incontra spesso gli studenti delle scuole superiori in giro per l’Italia. E' un grande sostenitore dei giovani, verso i quali nutre sinceri sentimenti di fiducia e speranza. Quale ruolo è chiamata a svolgere la scuola nella formazione umana e civile di coloro che rappresentano il futuro del nostro Paese?
I nostri giovani sono gli unici a fare la bellezza, la speranza e l'unità d'Italia. Tutti hanno le stesse attese, le stesse speranze. Sono attenti, cercano punti di riferimento. Hanno bisogno delle parole migliori, parole che abbiano un senso. Bisogna liberarli dall' "Inferno dell'uguale", facendo loro capire la bellezza dell'alterità e del dialogo. Oggi tutto converge verso un pensiero unico; i classici, invece, propongono visioni contrapposte.
Bisogna dare ai giovani la possibilità di scelta. La scuola è l'unico avamposto cui affidare la speranza e il futuro di questo paese. La scuola è il luogo dove i giovani e gli adulti insieme, con le conoscenze e le esperienze, affrontano e condividono la serietà, la severità, la bellezza tremenda e stupenda di quella cosa che chiamiamo vita.
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