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sabato, 05 agosto 2017 08:48 |
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Francesca Bianchi
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FtNews
ha incontrato la giornalista Letizia Gabaglio, autrice del libro Il Fattore X. Il primo libro sulla medicina di genere scritto dalle donne e pensato per le donne, scritto insieme alla giornalista Elisa Manacorda.
La studiosa ha ripercorso per noi la storia della scienza occidentale, per millenni dominata dalla presenza maschile, una presenza che ha impedito la nascita di una visione di genere della scienza. La Gabaglio si è soffermata, poi, sulla "medicina di genere", una medicina che considera le differenze e le valorizza, per dare ad ognuno la cura migliore. Il fatto che a breve tutti i corsi di laurea avranno, nell'ambito delle loro discipline, l'insegnamento della medicina di genere, fa sperare che lentamente il pregiudizio di genere e le sue disastrose conseguenze possano scomparire dalla pratica scientifica. La studiosa è fermamente convinta che per far sì che ciò si verifichi è indispensabile che anche gli uomini condividano ed accolgano la dimensione femminile nell'impresa scientifico-medica.
E' possibile parlare di un “genere della scienza”, secondo Lei? Esiste un approccio diverso delle donne al sapere scientifico?
La scienza è un prodotto culturale, espressione della società in cui si sviluppa e delle persone che contribuiscono alla sua costruzione e diffusione. Per millenni la “città” della scienza occidentale è stata abitata quasi esclusivamente dagli uomini; le poche donne che vi sono state ammesse erano considerate delle atipiche. Il loro contributo alla costruzione della scienza moderna è stato quindi marginale e il pensiero femminile non ha mai raggiunto un volume significativo tale da far nascere una visione di genere della scienza stessa. Quella che abbiamo oggi in mano, quindi, è prevalentemente una scienza costruita da uomini. L'inclusione delle donne avrebbe portato a "un'altra" scienza? Questo non lo possiamo dire con certezza e intorno a questo punto il dibattito è acceso. Secondo Londa Schiebinger, storica della scienza, direttore del Michelle R. Clayman Institute for Gender Research alla Stanford University, la risposta non può che essere affermativa. Analizzando il modo in cui la presenza di donne con una storia femminista alle spalle ha ridisegnato il senso delle domande in alcune discipline scientifiche, infatti, appare evidente, secondo Schiebinger, che l'ottica di genere consenta di dare diverse interpretazioni dei fatti. In particolare, il lavoro svolto nel campo della primatologia, dell'antropologia, della medicina sta a dimostrare che il modello su cui si basavano queste discipline era tutt'altro che neutro.
Nel 2010, insieme alla giornalista Elisa Manacorda, ha dato alle stampe il libro "Il Fattore X. Il primo libro sulla medicina di genere scritto dalle donne e pensato per le donne". Cos'è la "Medicina di Genere"?
Proprio nello stesso periodo in cui la pretesa neutralità della scienza veniva messa in discussione da storiche, filosofe e sociologhe della scienza, negli Stati Uniti nasceva la medicina di genere negli anni Ottanta. Un gruppo di cardiologhe, forti del supporto di Bernardine Healy, anche lei cardiologa ed eletta a capo del National Institute of Health (una specie di Istituto Superiore della Sanità), hanno cominciato a porre il problema di una medicina che non riusciva a curare adeguatamente le donne: nella popolazione femminile infatti si registrano più effetti collaterali e alcune procedure chirurgiche hanno meno successo. Le cardiologhe si chiesero il motivo. La risposta era che farmaci e procedure venivano studiati sul corpo maschile. Da questa osservazione – numeri e studi alla mano – è partito il movimento che negli Usa ha portato prima di tutto a una consapevolezza del problema, quindi anche a qualche azione concreta, come l'obbligo di inserire una quota parte di donne nelle popolazioni studiate nelle sperimentazioni cliniche. Ma il problema non è di facile soluzione.
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Nel libro sostenete che la medicina si è sempre basata sul paradigma "giovane adulto, maschio, bianco". Secondo Lei, è cambiato qualcosa negli ultimi anni?
Nel 1993, grazie al movimento per la medicina di genere americano, la Food and Drug Administration – l'agenzia che regola l'immissione in commercio dei farmaci – ha stabilito che i dati dell'azione dei farmaci sulle donne devono essere in qualche modo dimostrati: nella maggioranza degli studi almeno il 30% del campione di pazienti che viene coinvolto deve essere di sesso femminile. In Europa non esiste una normativa simile, ma è ormai evidente che chiunque voglia fare uno studio clinico deve tener conto della variabile di genere. In Italia il Comitato Nazionale di Bioetica si è espresso a favore dell'inclusione delle donne nei trial e l'Agenzia Italiana per il Farmaco ha messo in piedi un tavolo di lavoro su questo tema. L'attenzione non manca, sono i risultati che tardano a venire.
Nel Vostro libro spiegate il motivo per cui è importante considerare anche il sesso dei malati, quando si parla di malattie, di terapie e di sperimentazioni di farmaci. Perché anche quando si tratta di salute, fa molta differenza essere uomo o donna?
Non è solo il sesso a fare la differenza, ma il genere. Si tratta di due concetti diversi: il sesso è determinato biologicamente, il genere a livello sociale e culturale. Mi spiego con un esempio. E' dimostrato che, quando hanno un infarto, le donne arrivano al pronto soccorso in condizioni più gravi rispetto agli uomini e le ragioni sono due: i sintomi dell'infarto nelle donne sono diversi da quelli nell'uomo, che sono però quelli che tutti abbiamo ben chiari in mente (dolore al braccio sinistro e al petto), quindi ci sono delle differenze biologiche; il secondo motivo è che le donne tendono a sottovalutare i loro sintomi e sono prese meno sul serio quando dicono di stare male, e questo è un dato sociale. Ma si possono fare degli esempi anche al contrario, di discriminazione degli uomini. Il tumore della mammella, per esempio, può svilupparsi anche negli uomini. È un evento raro, d'accordo, ma nessuno ne parla (dato sociale) e gli uomini non ne sanno cogliere i segnali di esordio, così arrivano alla diagnosi molto tardi. Ecco la medicina di genere è una medicina che considera le differenze e le valorizza, per dare ad ognuno la cura migliore.
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Letizia Gabaglio ed Elisa Manacorda
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Nel panorama italiano le nuove cattedre di "Medicina di Genere" di Padova e di Sassari hanno aiutato l'affermazione di questo modo di vedere la medicina?
A Giovannella Baggio e Flavia Franconi va riconosciuto il merito di avere per prime sostenuto la necessità di inserire questo insegnamento all'interno del percorso di studi. Un'analisi dei libri di testo adottati nelle Facoltà di medicina, svolta qualche anno fa proprio dal team di ricerca di Franconi, evidenziò come, a parte quando si parla del sistema riproduttivo, nei libri non si facesse accenno alla differenza fra uomo e donna. Le cose, però, stanno cambiando, come dimostra l'annuncio fatto dal presidente della Associazione Conferenza dei corsi di laurea in Medicina e chirurgia, Andrea Lenzi, pochi mesi fa: tutti i corsi di laurea avranno nell'ambito delle loro discipline, da endocrinologia a medicina interna, l'insegnamento della medicina di genere. Una novità che riguarderà anche i corsi di laurea in Farmacia e i corsi di educazione medica continua Ecm per i medici. Oggi va molto di moda parlare di medicina personalizzata – intendendo la possibilità di dare a ogni singola persona il medicinale più giusto sulla base, per esempio, della genetica – ma prima di arrivare a questo potremmo concentrarci sulle differenze più evidenti, valutando non solo sotto l'aspetto anatomo-fisiologico, ma anche le diversità biologico-funzionali, psicologiche, sociali e culturali. Applicare questo, che non si presenta come disciplina medica aggiuntiva a quelle già esistenti, ma nuovo orientamento dell’intera medicina, richiede attenzione a molti ambiti di interesse, primo fra tutti, la formazione.
Quali prospettive future vede per le donne nel campo della medicina?
La medicina è un caso esemplare delle conseguenze che il pregiudizio di genere può creare nella pratica scientifica. Una distorsione che in molti pensano possa essere corretta dalla presenza sempre più massiccia di donne fra i medici. Se questo fosse vero, alla luce del numero crescente di immatricolazioni femminili ai corsi di medicina, nel giro di qualche decennio dovremmo aspettarci un completo ribaltamento della prospettiva di genere nella ricerca e pratica clinica. Sinceramente non sono così ottimista. Penso siano necessarie delle politiche precise. Inoltre, la consapevolezza della necessità di dover accogliere anche la dimensione femminile e l'ottica di genere nell'impresa scientifico-medica deve essere condivisa anche dagli uomini. In ogni caso nei prossimi anni staremo a vedere se il ribaltamento dei pesi nella composizione del corpo dei medici porterà a una modificazione anche del modo di fare intendere la medicina.
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