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venerdì, 03 novembre 2017 11:20 |
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Maternità Phemba Kongo - Yombe
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Francesca Bianchi
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Si è conclusa giovedì 26 ottobre la splendida mostra Mama Africa: la maternità nell'arte africana, allestita al Museo d’Arte e Scienza di Milano. La mostra, curata da Anna Alberghina e Bruno Albertino, è un affascinante viaggio estetico, etnografico ed antropologico attraverso l’Africa subsahariana e occidentale, fino alle aree più remote di quella centro-equatoriale, alla scoperta della maternità, aspetto sacro della vita femminile che permea tutta l'arte africana.
FtNews
ha avuto il grande piacere di intervistare Anna Alberghina e Bruno Albertino, due medici torinesi, viaggiatori instancabili, che da sempre nutrono una profonda passione per l'Africa. Animati entrambi da un grande interesse per l’etnografia e per le arti primitive e da un insaziabile desiderio di conoscere il mondo, hanno sempre scelto mete dove poter studiare tradizioni ancestrali. Per noi di FtNews hanno sfogliato l'album dei ricordi, parlandoci dei primi viaggi in Africa e dei primi contatti con le popolazioni del posto, da cui hanno generosamente ricevuto sinceri insegnamenti di speranza, ottimismo, solidarietà ed amicizia. Entrambi si sono soffermati sulla loro sterminata collezione di arte africana: circa 400 oggetti, appartenenti a gran parte delle culture dell’Africa sub sahariana. Si tratta di maschere, statue, oggetti d’uso in legno, terracotta, bronzo, pietra. I due ricercatori hanno parlato anche del libro Mama Africa: la maternità nell'arte africana, uscito nel 2016, da cui ha tratto ispirazione la mostra e dove si possono ammirare 109 tavole a colori relative a bamboline di fertilità, figure di maternità e fertilità, culto dei gemelli, figure di antenato, coppie mitiche e maschere femminili.
Dalle loro parole e dai loro occhi, che si illuminano quando parlano del continente africano, emerge la speranza che il loro appassionante lavoro possa salvare dall'oblio la preziosa eredità di popoli intatti, custodi di usi e tradizioni ancestrali, di cui tutto il mondo dovrebbe fare tesoro.
Anna, quando e come è nata la Vostra passione per l'Africa? Quando avete deciso di recarvi sul posto per la prima volta e che ricordo avete del vostro primo viaggio in terra africana?
L’Africa, si sa, non è un continente qualsiasi. Se si guarda al di là della realtà delle spiagge e dei safari, resta un mondo fatto di capanne di foglie, spiriti della foresta, riti di passaggio e culto degli antenati. Proprio per questo ha attirato nei secoli esploratori ed avventurieri, coloni e viaggiatori. Come tanti altri, anche noi non siamo immuni al suo fascino. I nostri primi viaggi in Africa risalgono alla fine degli anni ’80, appena conclusi gli studi universitari. Dapprima abbiamo visitato i paesi del Maghreb, ma il primo viaggio nell’”Africa nera” è stato in Mali. Un incontro folgorante, un tuffo nel passato. Ricordo di aver nutrito per settimane una nostalgia quasi fisica per questo paese, incapace di riadattarmi ai ritmi occidentali.
Anna, come siete stati accolti dalle popolazioni e cosa Vi ha colpito del loro stile di vita e della loro cultura?
Il rapporto fra “bianchi” e Africani non è sempre facile. Il nostro retaggio storico non è certo lusinghiero. Per secoli abbiamo sfruttato le immense risorse di questo continente: prima schiavi, oro e avorio, adesso legname, minerali e petrolio. Nonostante ciò, noi siamo sempre stati accolti con curiosità e sollecitudine dalle popolazioni dei villaggi. Incontrando questi popoli ho capito che, se scegliamo di non guardare all’Africa soltanto attraverso la lente delle guerre, delle carestie e delle emergenze umanitarie, ci viene svelato un mondo di impareggiabile bellezza. Proprio coloro che consideriamo “selvaggi” possono, invece, trasmetterci valori che noi abbiamo perduto, possono darci lezioni di speranza, di ottimismo, di coraggio, di solidarietà e di amicizia. Affacciarmi al loro mondo è stato per me un privilegio raro che mi ha resa consapevole di ciò che ho guadagnato, ma soprattutto di ciò che ho perduto.
Bruno, quando avete iniziato a collezionare preziosi pezzi di arte africana?
La nostra passione per l’arte africana tradizionale è nata alla fine degli anni ’80 durante un viaggio in Mali. In quell’occasione, visitando la popolazione Dogon, presso la falesia di Bandiagara, cominciammo a sviluppare un interesse per l’etnologia e per le sculture rituali. Risale proprio a quel viaggio l’acquisto della prima statuetta Dogon della nostra collezione.
Bruno, di quanti e quali oggetti si compone la Vostra collezione? Di quali culture sono testimonianza e, soprattutto, a quale periodo storico risalgono le sculture e gli oggetti in Vostro possesso?
La nostra eclettica collezione si compone di circa 400 oggetti appartenenti a gran parte delle culture dell’Africa sub sahariana. Si tratta di maschere, statue, oggetti d’uso nei vari materiali utilizzati: legno, terracotta, bronzo, pietra. Quasi tutte le principali culture vi sono rappresentate. Si va dai manufatti del vecchio Sudan francese, alle sculture di Costa d’Avorio, Liberia, Sierra Leone, Nigeria, Camerun, agli oggetti rituali del Gabon, del Congo, dell’Angola. I principali gruppi etnici a cui si riferiscono sono: Dogon, Baga, Baoulé, Dan, Yaouré, Senoufo, Yoruba, Fang, Pounou, Luba, Hemba, Boyo, Kongo, Kuba. La maggior parte degli oggetti lignei è databile dalla fine dell’800 alla prima metà del ‘900. Le sculture più antiche sono le terrecotte della cultura di Nok, in Nigeria, risalenti al periodo 500 a.C. – 200 d.C..
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Anna Alberghina e Bruno Albertino a Mana Pools - Zimbabwe
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Anna, i vari oggetti collezionati che immagine ci forniscono delle civiltà che li hanno prodotti e dell’ambiente sociale, economico, culturale e religioso?
In Africa linguaggio estetico, pensiero religioso e struttura sociale sono strettamente legati e sono gli elementi fondanti della cultura tribale. Maschere, feticci, figure di maternità e di antenati popolano il complesso mondo religioso africano. Mai creati con una mera finalità estetica, ma sempre per essere utilizzati nei riti. Non c’è dubbio che appesi ai muri delle nostre case o esposti nelle vetrine di una galleria, questi oggetti abbiano perduto il loro significato originario. Vanno sempre immaginati in un contesto rituale dove la musica e la danza ne accrescono la forza.
Bruno, cosa Vi ha indotto ad allestire una mostra dedicata alla maternità nell’arte africana?
Per quanto il tema della maternità e della fertilità nell’arte africana fosse uno dei più importanti e sentiti, tuttavia in letteratura vi erano pochissime mostre o libri specifici al riguardo ed in Italia nessuno. Pertanto è stato molto interessante approfondire l’iconografia e l’aspetto etnografico ed estetico di questa materia. Inoltre, ci siamo resi conto che avevamo collezionato un significativo numero di opere idonee a sviluppare questo tema. Il Museo di Arte e Scienza di Milano ha aderito con grande interesse a questa nostra iniziativa, rendendo possibile la realizzazione del progetto.
Anna, i temi della maternità e della fertilità sono molto rappresentati nell’arte africana e in tutte le arti figurative delle società umane. Come vengono rappresentati nell'arte africana questi importanti aspetti della vita femminile?
Come vivono le donne africane e che ruolo ricoprono all'interno della società?
E’ evidente che la maternità è un tema universale. Per comprendere il significato degli oggetti riferiti a questo tema così rappresentato nell’iconografia africana tradizionale, occorre conoscere quali siano i fondamenti della struttura sociale da cui essi scaturiscono. Queste società si basano su economie di sussistenza, così chiamate per lo scarso livello delle tecnologie di cui si avvalgono. Ciò significa che non debbono mai farsi mancare braccia giovani e forti in grado di lavorare e combattere. L’unica risorsa riproducibile è, dunque, la forza lavoro umana. Ciò dovrebbe attribuire grandi poteri alle donne, in virtù della loro insostituibile funzione procreativa. In realtà non è così. Alle economie di sussistenza corrispondono, infatti, sistemi sociali di tipo patriarcale, autoritario e gerontocratico. In questo contesto il ruolo della donna è essenzialmente quello riproduttivo. Bamboline di fertilità, figure di fertilità o di madre con bambino servono per propiziare la nascita di molti figli. Non vi è disgrazia peggiore per una donna africana che quella di essere sterile o incapace di generare figli maschi.
Anna, cosa vi induce a definire l'Africa come l'incarnazione della "Grande Madre"?
E’ qui che l’Umanità ha mosso i primi passi, come ci racconta lo scheletro di Lucy, ritrovato nel 1974 dal paleontologo Donald Johanson.
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Bamboline Akuaba Ashanti - Ghana
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Bruno, è possibile stabilire legami o punti di contatto tra l'arte tradizionale africana e l'arte europea?
Le avanguardie artistiche parigine dei primi anni del Novecento trassero grande ispirazione dal valore plastico e formale delle sculture africane. Picasso, Modigliani, Derain, Brancusi e molti altri artisti furono ispirati dalla sintesi plastica delle opere africane. Nelle Demoiselles d’Avignon del 1907, ritenuto il primo dipinto cubista di Picasso, le donne hanno i volti di maschere Senoufo o Mahongwe. Per contro, secondo talune correnti di pensiero, la colonizzazione dell’Africa da parte degli Europei ebbe influenza sull’arte tradizionale africana. Per esempio, le figure di maternità phemba Kongo Yombe della Repubblica Democratica del Congo ricordano l’iconografia delle Madonne d’Umiltà europee.
Bruno, nel 2016 è uscita la pubblicazione “Mama Africa. La maternità nell'arte africana", pubblicata da Neos Edizioni. Come è strutturato questo lavoro? La mostra prende spunto dal libro?
Certamente la Mostra è stata ispirata dal libro. Nella prima parte del testo vi è una analisi storica, etnografica, sociale e artistica dell’argomento. Quindi viene sviluppato uno studio estetico-formale sulle sculture di maternità e fertilità e vengono approfonditi i criteri di autenticità degli oggetti africani. La seconda parte riporta 109 tavole a colori relative a bamboline di fertilità, figure di maternità e fertilità, culto dei gemelli, figure di antenato, coppie mitiche ed infine maschere femminili. Il libro termina con le schede dettagliate delle opere con caratteristiche, provenienze e riferimenti bibliografici.
Anna, cosa vi manca di più dell'Africa?
Si potrebbe affrontare il tema del “mal d’Africa”. Molti sostengono che non esista, liquidandolo come uno stereotipo. In realtà, ogni volta che metto piede in Africa, mi sento inspiegabilmente a casa: è come se i miei cromosomi mi ricordassero che un tempo camminavo in una pianura africana. L’Africa risveglia il mio inconscio, mi fa sognare. Spinta da una forza interiore, viaggio alla ricerca di popoli intatti di cui desidero conservare una traccia per salvarli dall’anonimato o, peggio, dall’oblio. Celebrando la bellezza e l’originalità di queste comunità legate a tradizioni ancestrali, mi ripropongo di sensibilizzare la nostra società ad un problema che sembra ignorare: se continueremo ad esportare i nostri modelli, l’eredità di queste culture scomparirà per sempre e con essa morirà anche una parte di noi.
Anna, il 16 ottobre, nell'ambito del ciclo d’incontri promossi dal Museo d'Arte e Scienza di Milano in collaborazione con il Centro di cultura Italia-Asia, avete tenuto una conferenza dal titolo "Scarificazioni e decorazioni corporee nella vita e nell’arte dell’Africa subsahariana". Che significato hanno le scarificazioni e i tatuaggi nella cultura africana?
La modificazione corporea con ferite, mutilazioni e pigmentazioni è una pratica antica quanto il genere umano. Ce lo testimoniano le pitture rupestri del Tassili, nel Sahara algerino, datate circa all'8000 a.C. Queste pratiche sono tuttora diffuse in tutto il Continente Africano. In Africa, dove l’anatomia serve per identificarsi, scarificazioni, tatuaggi e acconciature portano l’individuo da una condizione indifferenziata all’appartenenza ad una cultura. La pelle diventa materia, supporto di espressioni, pronta ad accogliere qualsiasi trasformazione la allontani da una condizione primigenia. Al linguaggio si sostituisce la comunicazione non verbale, che si esprime attraverso l’arte dei segni, delle forme e dei colori. Le iscrizioni sulla pelle diventano, dunque, una forma ancestrale di linguaggio: legittimano il distacco dalla madre, il passaggio dall’età infantile a quella adulta e sanciscono definitivamente l’appartenenza di un individuo al suo gruppo sociale.
Bruno, quali riflessioni Vi augurate che questa mostra abbia suscitato e continui a suscitare in tutti coloro che hanno avuto il piacere di visitarla?
Vorrei trasmettere al visitatore le stesse, intense emozioni che noi abbiamo provato nello scrivere il libro e nell’allestire la mostra.
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