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Rosario Pesce
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La crisi del PD, manifestatasi nella vicenda delle primarie liguri, pone degli interrogativi importanti sia per lo sviluppo della legislatura in corso, che per la vita stessa del partito.
Esaminiamo in breve le vicende: indette le primarie in Liguria per individuare il candidato, che dovrà competere per la Presidenza della Regione, a Cofferati - dato per vincente, visto il suo curriculum di assoluto prestigio - si contrappone una giovane donna, assessore uscente della Giunta Burlando, sostenuta apertamente dal Nuovo Centro Destra, che però non avrebbe dovuto far parte dell’alleanza per il voto di maggio.
Così facendo, si cambiano gli esiti della partita: Cofferati perde e, soprattutto, in Liguria non ci sarà più un’intesa di Centro-Sinistra a presentarsi ai nastri di partenza della competizione elettorale, ma correrà uno schieramento, che è la mera riproduzione, a livello regionale, dell’attuale maggioranza che governa il Paese, designando in questo modo la fine dell’accordo di tipo ulivista non solo a Roma, ma anche sui territori.
Un simile fatto non può non determinare conseguenze a livello centrale, visto che mancano poco più di dieci giorni all’inizio della tornata elettorale per il Quirinale.
Infatti, l’annuncio di Cofferati, che ha dichiarato pubblicamente la sua intenzione di uscire dal PD, non potrà non incidere sul voto quirinalizio, dato che molti parlamentari sono in sofferenza, dal momento che, nel 2013, furono eletti grazie all’accordo con Vendola e la Sinistra ed oggi, invece, si trovano ad essere alleati, formalmente, di Alfano, mentre – di fatto – il vero Patto, su cui si regge la politica italiana, è quello - ancora più discutibile - del Nazareno.
La radice ulivista del PD, per effetto della vicenda ligure, è stata definitivamente soppressa, per cui il PD renziano si è trasformato in una formazione meramente centrista, che preferisce l’intesa ed il dialogo con le forze posizionate alla sua Destra, piuttosto che con quelle alla sua Sinistra.
Le sofferenze democratiche non hanno, però, fine con la vicenda di Cofferati: ancora più traumatica e, per certi aspetti, grottesca è la vicenda della Campania, regione essenziale negli equilibri politici non solo del Sud, ma dell’intero Paese, visto che - per numero di abitanti e, dunque, di elettori - è la seconda in Italia, dopo la Lombardia.
In quel territorio, reduce da cinque anni di governo locale della Destra, sono state rinviate per ben due volte le primarie: l’ultima data, quella di domenica 1 febbraio, è tuttora incerta, visto che ai due contendenti storici, Cozzolino e De Luca, si sarebbe aggiunto un terzo, il deputato Migliore, caldeggiato dai renziani, il quale però non sa ancora se parteciperà alla competizione elettorale interna o se sarà incoronato candidato, bypassando le primarie, attraverso la designazione di almeno il 60% dei componenti della Direzione Campana del PD, come da regola statutaria.
In caso di revoca delle elezioni - già organizzate, in larghissima parte, nei centri urbani più importanti - i due candidati, che non avrebbero più la possibilità di misurarsi, andrebbero in grave disagio e non è detto che almeno uno dei due, De Luca, possa allestire una sua lista civica e correre alle elezioni di maggio contro Migliore, vista l’individuazione di quest’ultimo con metodi certo poco democratici e non ortodossi.
È evidente che lo stato di incertezza, che si registra sui territori, debba poi avere un riflesso nazionale: come si può ipotizzare di governare un Paese, complesso come il nostro, se non ci sono idee chiare? Il PD bersaniano era una cosa seria, quello renziano ha ben altra identità: si può, forse, accusare Bersani di essere stato un perdente, in quanto in alcuni momenti chiave della vicenda istituzionale non ha avuto la fermezza per imporre le sue scelte, ma quel partito aveva dei contorni – che piacessero o meno – molto netti e precisi.
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