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Rosario Pesce
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È, ormai, evidente che nel PD si stia consumando un’autentica resa dei conti, che certo non terminerà con l’esito del referendum del prossimo 4 dicembre.
Infatti, dopo quell’evento, comunque vada, il PD dovrà celebrare il Congresso ed, in prospettiva, si stanno già posizionando gli schieramenti.
Il fronte del No al referendum, capeggiato da Bersani e da D’Alema, si farà portatore di una proposta, che rappresenterà la vera novità dei prossimi anni del Partito Democratico, se dovesse essere accolta dalla maggioranza della platea congressuale: le figure del Presidente del Consiglio e del Segretario Nazionale dovranno essere ben distinte, per cui il modello veltroniano del partito leaderistico dovrà andare, definitivamente, in soffitta.
Mai più, quindi, sovrapposizioni di ruoli fra chi guida il partito e chi, invece, sta a Palazzo Chigi, secondo uno schema già conosciuto ai tempi dell’Ulivo, quando il Premier – Romano Prodi – non era, neanche, espressione della formazione maggioritaria di quella coalizione, i Democratici di Sinistra.
Naturalmente, gli esiti referendari del prossimo 4 dicembre fisseranno i rapporti di forza all’interno della principale forza politica italiana, per cui, se Renzi dovesse essere sconfitto, potrebbe - al più - pure continuare a governare il Paese, ma gli verrebbe portato il conto in modo inequivocabile, con la richiesta di dimissioni dal ruolo di Segretario Nazionale, che – come ai tempi della Prima Repubblica – è ben più importante del Premierato, visto che nessun Premier può durare a lungo, se non controlla direttamente il partito, che lo elegge al soglio di Palazzo Chigi.
È evidente che, in tale partita, sarà decisiva la presenza dei gruppi parlamentari ex-margheritini, guidati da Franceschini e dagli altri maggiorenti di origine democristiana, i quali dovranno decidere se sostenere, in alternativa a Renzi, un candidato di estrazione ex-comunista.
In caso di vittoria del Sì, invece, Renzi potrebbe avere maggiore agio a vincere il Congresso, ma avrebbe l’enorme difficoltà di una formazione divisa al suo interno, dal momento che i vari Bersani, Speranza, D’Attorre avrebbero la chance di accentuare la spaccatura, già prodotta con la fuoriuscita di Fassina e Civati, per cui Renzi sarebbe costretto a manifestare, alla luce del sole, i suoi accordi – ben noti – con Verdini e con l’area centrista, che si è posizionata al suo fianco dopo l’uscita di scena di Berlusconi.
L’alternativa, dunque, è molto chiara: o ritorno all’Ulivo o creazione del Partito della Nazione, che farebbe del PD un partito definitivamente centrista, privo di sostegno alla sua Sinistra e, soprattutto, incapace di interloquire con altre forze, se non con Verdini, Casini ed Alfano.
Il 2017, dunque, sull’onda dell’esito referendario, disegnerà una nuova geografia partitica, che molto probabilmente troverà il suo momento di verifica nelle elezioni generali del 2018.
Come si arguisce, quindi la contesa referendaria decide equilibri molto importanti, che vanno ben oltre il merito della riforma in sé, ma siamo sicuri che gli Italiani volevano fare della Costituzione il terreno di battaglia fra fazioni e correnti interne al principale partito italiano?
Comunque vada, forse Renzi dovrà dare ai suoi elettori una risposta, anche, su di un quesito siffatto.
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