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Rosario Pesce
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La vicenda romana dimostra come il PD abbia un istinto suicida.
Ripercorriamo i fatti.
Viene eletto a Roma un sindaco di chiaro prestigio, Marino, il quale si evidenzia per la sua non appartenenza al ceto politico locale, lo stesso che – in gran parte – sarebbe rimasto coinvolto in “Mafia capitale”.
Orbene, un simile primo cittadino, in un altro contesto di partito, sarebbe stato sostenuto; invece, i vertici, laziali e nazionali, decidono di scaricarlo, appena il probo chirurgo riceve un avviso di garanzia per un addebito, che si dimostra poi, in sede di giudizio, assolutamente infondato.
Frattanto, i suoi consiglieri lo sfiduciano, peraltro neanche in Consiglio, ma attraverso un atto depositato presso un notaio e, per tal strada, Roma – nel giro di pochi mesi – passa dall’amministrazione del PD a quella grillina.
Parlare di masochismo è, forse, non azzardato, dal momento che è, a tutti, evidente che un partito forte ed autorevole avrebbe difeso, in modo strenuo, un proprio Sindaco - palesemente - onesto e corretto sia nel rapporto con le istituzioni, che con i suoi stessi dirigenti nazionali.
Peraltro, è evidente che, non trattandosi di un semplice capoluogo, ma della capitale italiana, la conseguente vittoria grillina ha avuto un’eco non solo locale, ma nazionale, aprendo così un varco importante all’ascesa del M5S sull’intero territorio, non solamente laziale.
Si sa che la gestione di Roma è stata affidata da Renzi ad Orfini, per cui, in tal caso, si evidenziano i limiti di una classe dirigente del PD incapace di gestire le criticità, che nascono negli Enti Locali.
Al caso romano non si può non aggiungere quello napoletano, per cui il PD, nel giro di pochi mesi, ha perso il principale Comune italiano e non si è messo nelle condizioni di essere effettivamente competitivo, in termini elettorali, nella più importante città del Sud.
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