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Rosario Pesce
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La polemica della settimana, appena conclusa, che ha incontrato maggiore eco sulla stampa nazionale è stata quella in merito all’uso del burkini, proibito sulle spiagge francesi da una ben precisa ordinanza.
Il burkini – per chi non lo sapesse – è quel costume integrale, che copre, appunto interamente, il corpo della donna musulmana, che si fa il bagno o semplicemente decide di trascorrere qualche ora in spiaggia.
È evidente che la norma francese pone un problema, anche, per gli altri Paesi europei, che dovrebbero invero mettere in atto una medesima politica circa le problematiche dell’integrazione, visto che questa è tematica che inerisce all’intero continente e non solo ad uno Stato, piuttosto che ad un altro.
Ma, come su altri argomenti di stringente attualità, anche in materia di burkini ogni Paese si muove come crede.
Il divieto francese non è la mera conseguenza degli ultimi attentati verificatisi oltralpe, ma è perfettamente coerente con la politica di quel Paese in materia di pubblicità dei simboli religiosi.
Sappiamo bene, infatti, che ad esempio in Francia l’applicazione del principio di laicità impedisce che, nei luoghi pubblici, scuole ed uffici, possano essere mostrati simboli religiosi, per cui in nessuna aula si potrà mai incontrare un Crocefisso ovvero qualsiasi altro simbolo, che dovesse richiamare una religione, monoteista o politeista che sia.
Pertanto, essendo il burkini un abito che, intrinsecamente, richiama una tradizione religiosa e non è solo una mera moda estiva, diviene oggetto di un divieto ben preciso, alla stessa stregua del già citato Crocefisso.
Ma, così come con il Crocefisso, qualche domanda pure va posta in merito ad una tradizione, che coinvolge molti aspetti problematici.
Chi è a favore del divieto, lo giustifica dicendo che esso umilia la bellezza femminile, alla pari di molte altre abitudini del mondo musulmano, che obiettivamente fanno del corpo femminile oggetto di un mercimonio, che non sarebbe, per noi, accettabile.
Ma, anche in ossequio alla nostra Costituzione, come può lo Stato interferire con la libertà personale di un individuo, che decide di indossare un abito, peraltro, particolarmente casto e pudico, che certo non offende la sensibilità comune?
Si potrà dire che, dalle nostre parti, le donne indossavano un simile costume circa un secolo fa, molto prima della nascita dei movimenti di liberazione femminili, ma invero - per legge o per ordinanza sindacale - lo Stato non può entrare – noi crediamo – nelle scelte condotte con consapevolezza, finanche quando esse tradiscono una manifesta affiliazione confessionale, che non è stata mai vietata (e non può esserlo) con un atto pubblico da parte del legislatore.
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