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Rosario Pesce
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Dove sia finito il voto di opinione, alle elezioni primarie per l’investitura del candidato sindaco di Napoli, in molti in verità se lo chiedono.
Il sistema delle voto delle primarie fu creato, ad hoc, per favorire il consenso ampio che la pubblica opinione intende dare ad un candidato piuttosto che ad un altro, allo scopo di sottrarre il processo di formazione della classe dirigente di un partito ai meccanismi atavici di acquisizione delle tessere, che evidentemente prediligevano altre dinamiche.
Orbene, i fatti emergenti in merito alle vicende napoletane – nel cui contenuto, ovviamente, non entriamo – dimostrano che il voto di opinione rischia di divenire sempre più marginale, se è vero che, al di fuori di un seggio, un grande elettore di questo o di quel candidato può convincere, con pochi euro, un cittadino a votare in favore del proprio prescelto, a prescindere da qualsiasi altra nobile valutazione di ordine generale.
Così facendo, è ineluttabile che il meccanismo delle primarie venga svilito, per cui non solo il PD, ma tutti i partiti italiani dovranno, a breve, tornare ad interrogarsi sui criteri, che devono essere allestiti allo scopo di favorire la nascita di una classe dirigente autorevole, su cui - ovviamente - non cada l’ombra di un voto poco trasparente, quale strumento della sua promozione.
Dal momento che non ci interessa entrare nel fatto della cronaca napoletana, da cui la nostra riflessione pure prende le mosse, è opportuno evidenziare come una simile degenerazione mette in serio pericolo gli esiti ultimi del processo democratico, perché si rischia di dare un’investitura, apparentemente, legittima ad un iter di selezione dei gruppi dirigenti, che nasconde molte più insidie di quelle che venivano in essere, quando le segreterie dei partiti decidevano, a tavolino, le sorti di questa o quella corrente interna, di questo o quel leader.
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