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Rosario Pesce
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In politica, le ragioni del dissenso sono elemento importante del dialogo: all’interno del Partito Democratico, in particolare, sembra che l’opposizione sia scomparsa del tutto, visto che i pochi coraggiosi, che hanno avuto l’ardire di manifestare un legittimo dissenso rispetto alla linea renziana, sono già transitati presso altri lidi, dove sono oggi impegnati – come Fassina e D’Attorre – a costruire un’alternativa programmatica alla leadership democratica.
Peraltro, è evidente che la minoranza interna di quel partito sia scomparsa, progressivamente, nel momento in cui sarebbe stata più importante la sua azione di contrasto contro il predominio assoluto degli uomini del Presidente del Consiglio. È probabile che qualche calcolo un po’ furbetto sia stato messo in essere: quando si andrà a votare, è chiaro che una minoranza non riottosa e costruttiva possa avere qualche seggio parlamentare garantito, per cui è preferibile non dare troppo fastidio al Capo, sapendo bene che può essere interesse di quest’ultimo, anche, avere uno schieramento interno sufficientemente addomesticato e prono alle intenzioni ed alle volontà di chi ha la responsabilità di guidare il PD ed il Paese.
Peraltro, a nessuno può sfuggire un dato: il Congresso, che ha eletto Renzi alla Segreteria Nazionale del PD, si è svolto nel lontanissimo dicembre 2013, per cui, nel corso di questi tre anni circa, si può affermare, senza timore di smentita, che siano passate ere geologiche in termini di sviluppo della dinamica istituzionale e partitica.
Sarebbe doveroso, pertanto, andare ad un Congresso in tempi rapidi e misurarsi sulla piattaforma del prossimo triennio, visto che, di qui al 2018, le scadenze certo non mancheranno, perché è, ormai, evidente che il Paese aspetta un cambio di marcia rispetto ai risultati dell’azione governativa, che – per quanto possa essere stata celere – non ha prodotto gli esiti, che ci si aspettava, soprattutto egli ambiti della politica economica e del lavoro.
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