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Francobollo sovietico commemorativo raffigurante Togliatti - dal sito: http://it.wikipedia.org/wiki/Palmiro_Togliatti
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Rosario Pesce
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Il 21 agosto del 1964 moriva Palmiro Togliatti, capo indiscusso del Partito Comunista e punto di riferimento ideale per i Comunisti italiani per molti anni, anche, dopo la morte.
L’anniversario della dipartita è un’utile occasione per fare, a distanza di cinquant’anni, un bilancio della sua azione, visto che – come per i grandi leaders – essa è al centro dell’attenzione di molti studiosi, che, nel valutarla, arrivano naturalmente a conclusioni diverse.
Si è, sempre, parlato di una presunta doppiezza dei Comunisti italiani, i quali erano, per un verso, i garanti dell’ordine democratico nel nostro Paese, visto che lo stesso Togliatti ha avuto un ruolo determinante nella vittoria contro il Fascismo e, soprattutto, ha placato più volte i suoi compagni di partito, quando essi volevano cedere a qualche tentazione rivoluzionaria e golpista, dopo la sconfitta nelle elezioni del 1948; per altro verso, però, si contesta al Migliore – tale era il suo soprannome durante gli anni della Resistenza – e al partito di essere stati legati, a doppio filo, con l’Unione Sovietica ed, in particolare, con Stalin, che morì dieci anni, circa, prima di Togliatti.
Questa liaison con i Sovietici ha rappresentato, invero, l’elemento più inquietante della storia dei Comunisti italiani, i quali hanno, sovente, reclamato una loro “diversità” culturale rispetto al Comunismo russo, ma, in concreto, non hanno mai avuto il coraggio di distaccarsi, in modo netto, dallo stalinismo, finanche quando questo cominciava ad essere soccombente nella stessa madre Russia.
La posizione, che il Partito Comunista Italiano assunse sui fatti ungheresi del 1956, è esemplificativa della sudditanza culturale, che i nostri dirigenti – e, su tutti, lo stesso Togliatti – nutrivano nei riguardi della dirigenza sovietica, da cui tentarono a stento di acquisire indipendenza d’azione ed autonomia di giudizio, per cui dovettero aspettare venti anni per provare, con Berlinguer, ad avviare – anche se in modo deficitario – un percorso distinto rispetto ai diktat provenienti da Mosca.
Togliatti fu, certamente, l’uomo politico più amato dalla base comunista, in quanto egli rappresentava, agli occhi di chi credeva e si identificava nel PCI, il modello del leader, dotato di un’autorevolezza indiscussa e di un assoluto primato culturale/morale rispetto ai suoi stessi compagni e collaboratori; invero, l’ascesa togliattiana venne favorita dalla morte prematura di Gramsci, che, scomparso durante gli anni del Fascismo, avrebbe potuto essere una voce distante dal coro, se avesse avuto la fortuna di sopravvivere e di continuare a produrre pensieri e riflessioni, che avevano certamente un’originalità intellettuale molto più spiccata rispetto a quella del Migliore.
Togliatti, evidentemente, si trovò a recitare un ruolo per nulla comodo: egli era il Capo del più grande Partito Comunista dell’Europa occidentale, ma viveva e ad agiva in uno Stato nel quale la sua forza partitica non sarebbe potuta andare mai al Governo, a causa di un palese divieto internazionale, che imponeva la presenza italiana entro il quadro diplomatico costituito dal Patto Atlantico e, dunque, dall’alleanza imprescindibile con gli USA.
La storia non si fa né con i “se”, né con i “ma”: addebitare, oggi, a Togliatti la colpa di non aver, neanche, tentato di socialdemocratizzare il suo partito e di staccarsi, quindi, da Mosca non ha senso, perché, soprattuto quando imperava Stalin, se egli avesse percorso un sentiero dissimile, molto probabilmente avrebbe perso la vita, così come, venti anni dopo, accadde a Berlinguer, che rischiò di essere ucciso, quando, con la teorizzazione della cosiddetta “Terza Via”, si contrappose nettamente alla dirigenza sovietica, la quale, con la complicità dei Servizi Segreti della Germania dell’Est, organizzò un attentato ai suoi danni durante un viaggio nell’Europa orientale.
Peraltro, Togliatti non era solamente il leader di un partito, sulla carta, legato a schemi rivoluzionari, ma rappresentava, per molte migliaia di Italiani, l’immagine del Liberatore da sofferenze secolari, dato che tutti i fatti storici più importanti, che avevano riguardato il nostro Paese, si erano consumati in un clima di massima disattenzione verso le problematiche della povera gente: la critica al Risorgimento e alla sua conclusione liberale, condotta da Gramsci, dimostra bene come esisteva in Italia una vasta area sociale, che era rimasta fuori da qualsiasi effettivo tentativo di liberazione ed affrancamento dal dolore e dal bisogno, che richiedeva, giustamente, ascolto ed attenzioni dalle istituzioni.
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