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Per cui, alla luce di tali elementi di contorno, non si può certo biasimare un Presidente della Repubblica, che - dimettendosi - ha dichiarato, con l'alibi dell'età e della stanchezza fisica, la sua volontà di non prestare il fianco più ai giochi meschini di partiti e correnti, che hanno, plasticamente, dimostrato di non saper mantenere gli impegni, solennemente, presi.
C’è un elemento ulteriore di riflessione, su cui è doveroso ragionare: due anni fa, quando scadeva il suo primo mandato, Napolitano era il politico più amato dagli Italiani, a dimostrazione del fatto che la pubblica opinione aveva percepito la sua grandissima onestà, sia morale che intellettuale, tanto più ridondante se messa a confronto con quella di un ceto autoreferenziale e, soprattutto, molto cinico.
Nel corso dell’ultimo biennio, invece, questa popolarità è diminuita moltissimo, perché – suo malgrado – il Capo dello Stato è apparso come il garante dell’intera architettura istituzionale e partitica, per cui la sua scelta saggia di dimettersi, già nei primi giorni del 2015, servirà a distinguere nettamente le sue responsabilità, davvero scarse o nulle, da quelle - molteplici - della casta, in merito al fallimento del processo riformatore e alle conseguenze economico-finanziarie, che si ripercuotono su di un Paese in ginocchio.
Invero, alcuni passaggi del suo lunghissimo periodo di Presidenza, rimangono oggetto del dibattito, che vede coinvolti politologi e cittadini: nel 2011, quando cadde il Governo Berlusconi, per effetto della famigerata lettera di ammonimento circa la tenuta della finanza pubblica, ricevuta dall’Unione Europea, perché Napolitano non ha sciolto il Parlamento, anziché dare il mandato a Monti, che - in quel preciso momento storico - non era neanche parlamentare, dato che egli venne proclamato Senatore a vita pochissimi giorni prima di ricevere l’incarico di formare il Dicastero?
Ed, ancora, perché, all’indomani delle elezioni del febbraio 2013, Napolitano non ha mai conferito a Bersani l’incarico compiuto di formare l’Esecutivo, di fatto contribuendo a delegittimare definitivamente quello che era, pur sempre, il Segretario Nazionale del primo partito italiano?
Ed, inoltre, perché il Capo dello Stato uscente ha investito molta della sua credibilità personale su Renzi, essendo di fatto decisivo il suo intervento nello scorso febbraio, quando Letta fu invitato a dimettersi e venne convocato, nel cuore della notte, al Quirinale l’ex-Sindaco di Firenze, che ricevette così un’investitura dall’alto, che andava a sostituire quella mai ricevuta dall’elettore?
Sono, questi, interrogativi su cui, per lungo tempo, gli storici si interrogheranno, visto che, in tutti e tre i casi citati, il comportamento di Napolitano - impeccabile da un punto di vista formale e costituzionale - ha condizionato pesantemente, comunque, il corso degli eventi, che avrebbe potuto essere ben diverso, se - almeno in una di quelle circostanze menzionate - egli avesse deciso di sciogliere le Camere, come pure avrebbe potuto fare, e di dare la parola, di nuovo, ai cittadini italiani con il ricorso anticipato alle urne.
Così facendo, invece, dal dicembre 2011 ad oggi, in Italia sono nati - consecutivamente - tre Governi, nessuno dei quali investito della giusta legittimità popolare: molto probabilmente, un siffatto vulnus è alla base della loro cronica fragilità, che li ha portati ad essere in carica per non più di dodici mesi circa.
Infatti, lo stesso Governo Renzi, tuttora vivo ed attivo, si trova in grosse difficoltà e l’assenza di Napolitano, nelle prossime settimane, potrebbe aggravare la condizione di disagio di un Gabinetto, nato per dare uno scossone alle istituzioni ed, al momento, impantanato nelle sabbie mobili di due Camere, nelle quali esso può contare su maggioranze variabili, che lo indeboliscono notevolmente, dato che lo espongono ai ricatti reciproci di questa o quella forza, il cui consenso è necessario per far passare l’uno o l’altro dei provvedimenti, di volta in volta in discussione in uno dei due rami del Parlamento.
Infine, Napolitano lascia in eredità al suo successore un auspicio, quello conclusivo contenuto nel lungo e denso discorso di ieri sera, che in verità poco condividiamo: l’unità delle forze partitiche, in vista della realizzazione, finalmente, della grande riforma dello Stato.
Forse, visti i frutti finora raccolti, seguendo una logica parlamentare siffatta, non sarebbe molto più opportuno rilanciare un modello compiuto di democrazia dell’alternanza, per cui nessuno più potrà dubitare che Sinistra, Centro e Destra collaborano per scopi non solo, strettamente, istituzionali?
D’altronde, in Italia la collaborazione fra diversi si è tradotta, per un lunghissimo periodo, dapprima nel Compromesso Storico e, poi, nelle Larghe Intese: sono proprio, questi, gli indirizzi in politica, che gli Italiani non amano, perché sanno bene che, finanche, i fini più nobili possono rimanere vittima di progetti discutibili ed aspirazioni non legittime, che poco o nulla hanno a che fare con il senso civico e con la salvaguardia più autentica delle, già precarie, istituzioni democratiche del Paese.
Ma, quando sarà eletto, ci sforzeremo di capire bene se il nuovo Capo dello Stato agirà in continuità o in discontinuità con il suo predecessore, indipendentemente dalle formule di rito e dalle frasi di circostanza, che - inevitabilmente - saranno pronunciate all’atto del suo solenne insediamento.
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