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Orbene, Renzi ha dovuto ammettere, di fronte a difficoltà di questo tipo, che - a distanza di un anno dalla sua nomina alla Presidenza del Consiglio dei Ministri - egli non è riuscito a sottoporre il proprio partito ad un processo di fidelizzazione autentica, capace di evitare gli incidenti di percorso, che abbiamo elencato e che rischiano di accentuare lo stato di disagio del Premier, il quale - non casualmente - spesso preferisce interessarsi di questioni internazionali, dato che la soluzione di quelle interne l’affida a Del Rio o a Guerini, rispettivamente in rapporto a problematiche afferenti al Governo o al PD.
È evidente che, nell’arco di questi dodici mesi, egli ha rafforzato la sua posizione personale, visto che Confindustria e l’Unione Europea hanno individuato in lui un interlocutore importante, consolidandone così la visibilità continentale.
Ma, questo non basta: la storia insegna che, quando un Premier non riesce più a controllare il partito di appartenenza, è destinato all’insuccesso, così come succedeva ai tempi della Prima Repubblica, quando i Presidenti del Consiglio venivano, di fatto, prima indeboliti e, poi, costretti alle dimissioni dalle manovre, che nascevano sotto l’impulso delle correnti interne a loro contrapposte.
È il caso di De Mita, che, quando perse la Segreteria della DC, cominciò a divenire sempre più debole, anche, a Palazzo Chigi; è il caso di Craxi, che - quando portò il PSI a raggiungere il dato storico più importante della sua storia elettorale - poi cominciò, progressivamente, a perdere il controllo del partito del Garofano, per cui i primi sussulti contro il leader milanese nacquero dall’interno stesso della Segreteria di Via del Corso.
Renzi è, tuttora, sostenuto dai media, per cui la sua fine non è, certo, prossima.
Crediamo che egli arriverà, nelle vesti di Premier, alle prossime elezioni politiche, per cui saranno queste, poi, a decretare eventualmente la sua disfatta o il suo definitivo successo, contro nemici interni ed esterni.
Certo è che il PD, frattanto, sta divenendo un gigante dai piedi d’argilla.
La vicenda di De Luca è esemplare, visto che il vertice nazionale non è stato in grado di persuaderlo a desistere, per evitare l’imbarazzo attuale, ed ora l’impresa appare chiaramente ancora più difficile, dopo la legittimazione, che ha incassato con le primarie di domenica scorsa.
La debolezza renziana, in tal caso, rischia di divenire la cartina di tornasole di un leader, che, nato per rottamare le vecchie élites di matrice ex-democristiana ed ex-comunista, è riuscito a compiere tale operazione solo a livello nazionale, ma è stato incapace di fare azione analoga nelle realtà periferiche, dove i vecchi capibastone continuano a gestire il partito, per cui - in virtù di una semplice manovra trasformistica - sono passati dalla condizione di sostenitori di Bersani a quella di supporto prezioso per la leadership renziana, non perdendo nulla del loro potere originario, anzi fagocitando pezzi importanti di ex-ceto dirigente nazionale.
D’altronde, nessuno può dimenticare che lo stesso De Luca fu, dapprima, sostenitore di Bersani, quando si votò alle primarie per la designazione del candidato del Centro-Sinistra nel 2012, e poi, esattamente un anno dopo, nella città e nella provincia di Salerno portò i medesimi, copiosi voti a Renzi, contribuendo ad incoronarlo Segretario nella contesa contro Cuperlo, a dimostrazione che il potentato nazionale passa, ma quello locale rimane e continua a gestire il partito nella sua realtà alla stregua di un signore feudale, al cui cospetto - come faceva l’Imperatore nel Medioevo - il leader odierno deve prostarsi per ottenere in cambio voti e tessere.
È, questa, un’immagine triste, perché una rottamazione incompleta pregiudica il concetto stesso di cambiamento.
Peraltro, come nella vicenda campana, l’imbarazzo si rovescia dal piano regionale a quello romano e la difficoltà, di fronte alla pubblica opinione nazionale, la sconta poi il Capo del Governo, visto che i giornali e la grande stampa non possono non chiedere spiegazioni al Premier circa fatti, che sembrano inverosimili in un partito costruito secondo canoni democratici.
È giusto che, quindi, Renzi si dia una mossa; altrimenti, egli pagherà un prezzo altissimo per non aver portato a termine il suo lavoro.
Soprattutto, dovrà stare attento non tanto alla minoranza, che non è in grado di produrre danno, ma a quanti, dichiarandosi renziani doc, continuano a tenere in piedi sistemi di consenso, che poco o nulla hanno a che fare con il modello di partito immaginato dai ragionamenti, più volte, condotti alla Leopolda.
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