|
|
Rosario Pesce
|
|
Per onestà intellettuale, non possiamo non fare i complimenti a Vincenzo De Luca, che ha vinto le primarie di domenica, diplomandosi così al ruolo di candidato, che dovrà sfidare - nella prossima primavera - Caldoro e l’Amministrazione regionale uscente di Centro-Destra.
Fatti i dovuti onori a chi ha vinto in modo netto ed inequivocabile, prendendo la maggioranza dei voti, finanche, in molti seggi di Napoli, non si può non sottolineare il problema, che esiste da tempo: la condanna, in primo grado, che, ai sensi della legge Severino, impedisce a De Luca - qualora eletto - di divenire Presidente della Regione, almeno fino alla primavera del 2016, quando verrebbero meno gli effetti di una norma, che in Italia ha mietuto, finora, vittime illustri, fra le quali Berlusconi.
Quindi, due sono le opzioni possibili: o De Luca andrà avanti nella sua impresa, conquistando Palazzo Santa Lucia, sapendo bene che, per dodici mesi circa, dovrebbe delegare i poteri presidenziali al suo Vice oppure il PD nazionale si farà promotore di un’iniziativa legislativa, volta a modificare la Severino, prevedendo magari che la decadenza e la sospensione dai pubblici uffici possano scattare solo dopo un’eventuale condanna definitiva e non, già, dopo la pronuncia di primo grado, come accade per i parlamentari, che sono sottoposti ad un regime diverso da quello previsto per gli amministratori degli Enti Locali.
In entrambi i casi, è evidente che il PD si esporrà ad una figuraccia di portata straordinaria: se candiderà un esponente condannato – sia pure, ripetiamo, solo in primo grado – subirà gli strali di quanti fanno della bandiera della pubblica moralità il loro principale cavallo di battaglia, mentre ci sembrerebbe molto anomalo un eventuale intervento legislativo, volto a modificare la Severino ad hoc per De Luca, perché la pubblica opinione nazionale non potrebbe non insorgere, a seguito di un trattamento di favore riservato ad un dirigente del partito del Premier, mentre - quando la questione si pose per Berlusconi - il “no” fu netto e senza alcuna mediazione possibile.
Certo è che, in un Paese normale, le primarie si sarebbero dovute svolgere cinque mesi fa, quando furono indette la prima volta, e – soprattutto – in nome di un principio ragionevole di opportunità, sarebbe stato giusto che un amministratore, appena condannato, venisse tenuto fuori dalla competizione popolare, sapendo bene che una sua eventuale elezione avrebbe messo il PD nazionale in una condizione di disagio rispetto agli alleati di Governo ed, in particolare, al cospetto dei cittadini delle altre regioni, che non capiranno mai le ragioni di un garantismo a senso alternato, per cui, quando il proprio dirigente è condannato, si fa riferimento alla Costituzione per giustificare un ben preciso comportamento; quando, invece, viene condannato l’esponente di un altro partito, ci si trincera, allora, su posizioni giustizialiste, come avvenne - appunto – nel caso del Cavaliere.
|
|