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Rosario Pesce
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Gli eventi degli ultimi giorni dimostrano come l’Iran non sia una realtà tranquilla, in questo momento storico.
È evidente, infatti, che le proteste, che sono scoppiate in alcune piazze di Teheran, possono mettere in condizione di forte disagio il regime degli ayatollah, che guida il Paese senza soluzione di continuità dalla rivoluzione di Khomeini.
È molto probabile che, anche, i nuovi indirizzi di politica estera degli Stati Uniti d’America costituiscano un fattore di accelerazione di fermenti presenti in una società molto ricca, che certo non vuole rimanere al Medioevo, rappresentato dal burqa e da tutte le tradizioni imposte dalla religione islamica, che in quelle terre è professata secondo il rito sciita.
Ma, se gli Stati Uniti pensano di poter ripetere ciò che è successo negli altri Paesi islamici, credo che stiano commettendo un errore grandissimo di valutazione.
L’Iran non è l’Algeria o il Marocco, dove può essere pilotata dall’esterno una rivoluzione di popolo in nome del progresso e della civiltà occidentale.
Parimenti, l’Iran non è l’Iraq: se, infatti, Trump ipotizza di poter bombardare il popolo iraniano, come hanno fatto i suoi predecessori con l’Iraq, andrebbe incontro non solo ad una pesantissima sconfitta militare, ma soprattutto di ordine politico, che avrebbe ripercussioni sull’intero quadro internazionale.
L’Iran è una potenza, sostenuta in passato dall’Unione Sovietica, oggi dalla Russia di Putin e dalla stessa Cina, che evidentemente non vedrebbe bene la caduta dell’ultimo vero baluardo anti-americano in Medioriente.
Peraltro, l’economia iraniana è così forte, da essere in grado, da sola, di respingere l’attacco, militare e politico, degli Americani, qualora questi - per davvero - fossero desiderosi di infliggere il colpo di grazia all’ultimo Stato, ancora, impermeabile ai condizionamenti dell’Occidente.
In quel territorio, stravolto dai conflitti religiosi, è chiaro che l’Iran rappresenta, oggi, l’unico nemico autentico del più forte alleato americano, lo Stato di Israele, che intende fissare la propria capitale a Gerusalemme, dimenticando che quella città è stata il centro di diffusione delle tre religioni monoteiste.
Ma, al tempo stesso, l’Iran rappresenta un baluardo contro gli Stati islamici, che sono a maggioranza sunnita: non dimentichiamo, infatti, che il terrorismo dell’Isis nasce nell’ambito della pratica sunnita dell’Islam, per cui – suo malgrado – l’Iran è il nemico dei principali nemici odierni dell’Occidente.
Anche per questo motivo, non capiamo assolutamente il motivo di un’eventuale recrudescenza della conflittualità con lo Stato degli ayatollah: in assenza dell’Iran, oggi il Medioriente sarebbe, per intero, nelle mani dei successori di quanti hanno ordito la strage contro le Torri Gemelle, per lo più provenienti dall’Arabia Saudita.
Peraltro, gli Americani dimenticano che, quando hanno tentato di distruggere l’Iran, accentuando la conflittualità con l’Iraq, le conseguenze sono state disastrose, perché i soldati di Hussein vennero non solo sconfitti, ma finanche mortificati da quelli sciiti alle dipendenze delle autorità spirituali di Teheran.
Pertanto, un po’ di saggezza farebbe bene: la libertà ed i valori occidentali sono, certo, molto importanti, ma non si può mirare a distruggere l’unità nazionale di una comunità in nome di principi nobili, che però nascondono fini di altra natura.
Peraltro, se l’eventuale crollo dell’Iran dovesse determinare le medesime nefaste conseguenze, che si sono prodotte a seguito delle rivoluzioni nel Nord-Africa, è ovviamente preferibile la conservazione dello status quo ante, che ha consentito la presenza costante di equilibri che non aumentano l’incidenza del terrorismo e che, soprattutto, garantiscono la convivenza – seppure assai problematica – fra Ebrei e Musulmani ed, all’interno di questi ultimi, fra Sciiti e Sunniti.
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