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Rosario Pesce
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Il PD è un partito che discute e che, soprattutto, rende pubbliche le discussioni che avvengono al suo interno.
Orbene, le primarie del prossimo 30 aprile sono un’occasione utile non solo per eleggere il nuovo Segretario Nazionale, ma soprattutto per definire la rinnovata classe dirigente del primo partito italiano.
Infatti, immaginare che un partito possa coincidere solo con il leader è un’ipotesi peregrina.
A dire il vero, nel corso degli ultimi tre anni, durante il periodo della leadership renziana, il PD è stato ridotto alla condizione del partito leaderistico.
Oggi, non è più così e non può essere così, finanche in caso di conferma dello stesso Renzi alla Segreteria Nazionale, come appare probabile dopo lo svolgimento dei Congressi sezionali.
Un partito non può reggersi su di una figura che accentra tutte le attenzioni e che, soprattutto, vincola ai futuri propri quelli degli altri dirigenti.
In tal senso, ben venga il dibattito pre-primarie e, soprattutto, è auspicabile che gli organismi elettivi, che verranno nominati con il prossimo Congresso, possano essere funzionanti e non convocati sporadicamente, come pure è avvenuto nel corso dell’ultimo triennio.
Peraltro, questione importante è quella relativa al rapporto fra il centro e la periferia, perché, se a Roma la figura renziana è predominante, sui territori non sempre sono presenti personalità che hanno analoga capacità di leadership.
Pertanto, diviene essenziale costruire un partito che sia presente, sempre e comunque, a tutti i livelli, da quello comunale a quello regionale.
Cosa, questa, di difficile realizzazione, perché, da quando è stato introdotto il meccanismo di elezione diretta dei Sindaci e dei Presidenti delle Regioni, assistiamo ad una degenerazione del sistema di relazione fra i partiti e le istituzioni, per cui, accanto al partito ufficiale, nasce, per iniziativa di questo o di quell’amministratore, il “partito del Sindaco” o quello del Presidente della Regione, che - certo - non aiuta la chiarezza, visto che, in tali anomale formazioni, si realizza il più evidente dei trasformismi possibili.
Amministratori locali che, eletti con liste civiche, divengono di supporto al Sindaco più in vista o al Governatore, salvo poi cambiare leader di riferimento, quando al successivo passaggio elettorale cambia la guida di un Ente chiave nella programmazione e nella gestione delle politiche territoriali.
È, questo, uno dei fattori più forti che ha determinato la crisi del PD, come di qualsiasi altro partito organizzato: la tendenza degli amministratori a costruirsi dei propri veicoli di ricerca del consenso, che vanno ben oltre ogni limite ideale fra Destra o Sinistra, conservatori o progressisti.
Non è un caso, se lo stesso Renzi sia stato Sindaco di una grande città o se uno dei suoi competitor odierni, Emiliano, sia il Governatore della seconda regione del Sud per numero di abitanti e, forse, prima per prodotto interno lordo.
Per tal via, i partiti, che abbiamo conosciuto nel Novecento, divengono sempre più fragili ed impercettibili agli occhi della pubblica opinione, che preferisce avere un interlocutore diretto nella persona del Sindaco di turno, piuttosto che dare il proprio contributo alla costruzione di una classe dirigente ben più ampia ed articolata, che non si riduca ad un solo individuo, per quanto competente possa essere o per quanto autorevole sia la funzione istituzionale che ricopre.
Si riuscirà, quindi, a superare l’effetto distorsivo, indotto dalla elezione diretta del vertice delle Giunte Comunali e Regionali, oppure si rischia, sempre più, di divenire “clienti” di questo o di quello, danneggiando non poco la democrazia e la partecipazione, che dovrebbero piuttosto essere amplificate dall’introduzione di un sistema di elezione popolare di Sindaci e Governatori?
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