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Fabrizio Federici
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Storicamente l’Istituto Nazionale per le Malattie Infettive “Lazzaro Spallanzani” di Roma si è caratterizzato come centro di eccellenza a presidio della salute pubblica contro le malattie d’origine infettiva (batterica, virale, ecc…), analogamente ad altri ospedali romani per altre patologie (“S. Eugenio” per le ustioni, “Forlanini”, peraltro sciaguratamente chiuso dal 2015, per TBC e malattie polmonari, ecc…); e, in occasione della pandemia di Covid-19, è divenuto punto di riferimento a livello nazionale. Nel momento più difficile della lotta al coronavirus (marzo- aprile scorsi), problemi principali dello Spallanzani sono stati la disponibilità dei posti e la scarsità di apparecchiature qualificate, per monitorare le condizioni dei pazienti e, quando necessario, aiutarli a respirare.
Proprio per aiutare l’ospedale a fronteggiare meglio queste esigenze, sin da marzo scorso è partita una raccolta di fondi (esattamente donazioni) lanciata dall’ospedale stesso in due direzioni: ricerca sul Covid-19 (biologia, patogenesi, modalità di trasmissione, ecc…) e assistenza ai pazienti (soprattutto acquisto di apparecchiature cliniche diagnostiche e di strumentazioni per facilitare il lavoro degli operatori). In questa ricerca di fondi, si sono distinte varie realtà importanti. Come l’AS Roma, trascinata dall’esempio del “mito vivente” Totti (donatore, a marzo scorso, di 120.000 euro per l’acquisto di 2 colonne endoscopiche destinate anzitutto al reparto di Rianimazione e Terapia Intensiva per le procedure di broncoscopia urgenti), la Sara Assicurazioni (donazione di 1 euro per ogni polizza incassata nel periodo 1– 31 maggio, per importo di e. 500.000, e altre iniziative, alla pari di altre importanti imprese del settore come Cattolica, Allianz ed AXA, a favore di altri ospedali italiani); e l’ ANGI; Associazione Nazionale Giovani Innovatori, col suo comitato scientifico ( da maggio scorso in poi).
Non è mancato poi, sempre a favore dello Spallanzani, il contributo di tanti singoli, tra cui artisti e uomini di cultura in genere. Tra loro, abbiamo voluto ascoltare Rolando Capoccetta: musicista che, tra i nuovi della scena romana, negli ultimi anni si è imposto come artista eclettico, capace di raccogliere e remixare ispirazioni e sound tra loro diversissimi. Nato a Ceccano (Frosinone), e cresciuto tra Beirut, Losanna e Lazize (Verona), in ambienti culturali e sociali diversissimi, Capoccetta, coerentemente col suo itinerario di vita, è autore di Cd le cui sonorità vanno dal Mediterraneo all'Europa nordica e celtica. La sua ultima fatica è "Go High" (ascoltabile anzitutto in Rete, su Soundcloud.com): una raccolta di brani il cui ricavato economico, per esplicita volontà dell'autore, sarà interamente devoluto appunto allo "Spallanzani" di Roma, per la prima delle “direzioni di finanziamento” indicate dall’ospedale (la ricerca sul Coronavirus).
Rolando, tu sei stato già autore di dischi ai tempi storici del vinile. Nel 1986, a 23 anni circa, nel pieno del tuo impegno rimani coinvolto in un grave incidente stradale: restando poi fermo vari anni. Questa grave esperienza, cosa ti ha insegnato, e come ha influito, poi, sulla ripresa della tua attività?
Partiamo dall’ inizio. Nato nel Frusinate, io da piccolo ho seguìto mio padre in tutti gli spostamenti legati al suo lavoro di trombettista nei night club: dal Libano (negli anni ‘60 mitica “Svizzera del Medioriente”, prima della lunga, sanguinosa guerra civile, N.d.R.) alla Svizzera (Losanna, Berna), e infine all’Italia. Mentre andavo a scuola, iniziavo però anche ad imparare i “rudimenti del mestiere”: iniziai a suonare e mixare al night “L’oasi” di Lazise (Verona), non lontano dal Lago di Garda. A 18 anni, fui chiamato per l’apertura di una discoteca in Trentino-Alto Adige, dove ho lavorato poi qualche anno; altro momento importante fu quando conobbi un’agenzia teatrale di Bologna, che iniziò a mandarmi in giro come dj in tanti posti, dalla mitica “Capannina” di Forte dei Marmi ad altri importanti locali e discoteche del Veneto, del Bresciano e di S. Martino di Castrozza. Poi, nell’86, ecco il drammatico “giro di boa” dell’incidente…
Ma come avvenne?
All' epoca lavoravo in Svizzera, a San Bernardino (Canton Ticino): a un certo punto, nel corso, probabilmente, di un sorpasso azzardato, mi viene incontro con forza un altro veicolo. Non ricordo assolutamente nulla di cosa accadde: dopo addirittura 2 mesi mi risvegliai dal coma in ospedale, dopo esser stato operato, . trovandomi col viso sfigurato (alcuni postumi del trauma mi son durati vari anni). Per riprender la tua domanda di prima, questo grave incidente senz’altro in me ha determinato una maggiore sensibilità per gli aspetti essenziali della vita, nella consapevolezza che questa vita, così preziosa per tutti noi, in ogni momento ci può sempre sfuggire di mano. Ho ripreso a lavorare gradualmente, ricominciando in pieno solo 14 anni dopo, nel 2000. Quest’esperienza ha influito anche sulla mia attività perché prima dell’incidente io facevo solo il dj: dopo, trovandomi anche con ridotta capacità uditiva (da un orecchio non ci sentivo), mi son dedicato fortemente anche a scrivere musica, che avevo iniziato a comporre a 22 anni circa.
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