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mercoledì, 22 aprile 2020 09:40 |
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Fabrizio Federici
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Per onestà morale e intellettuale devo dire subito che sono d’accordo solo in parte con le tesi esposte, nel saggio autobiografico “La mia avanguardia” (Trabia, Avatar ed,. 2020, €. 22,00), dallo scrittore e giornalista Adriano Tilgher. Che nel libro ricostruisce soprattutto la storia del movimento di destra “Avanguardia Nazionale” e, più in generale, di quegli anni cruciali della Repubblica che vanno dal mitico ’68 al 1975: quando, il 27 novembre, 72 presunti dirigenti e militanti di Avanguardia vengono arrestati con l’accusa di violazione della legge Scelba del ‘53 (per ricostituzione del disciolto Partito Nazionale Fascista: il processo si terrà poi nel ’76, portando, in ultimo, allo scioglimento dell’organizzazione). Gli anni della contestazione generale, dei fremiti libertari del movimento studentesco; ma anche delle “stragi di Stato” (da Piazza Fontana all’“Italicus”), del malessere sociale, del terrorismo (nel 1970 nascono le Brigate Rosse).
Sono d’accordo solo in parte, dicevo: e questo perché, avendo da sempre, come riferimento intellettuale, il socialismo democratico, non condivido in pieno le tesi dell’Autore. Ma la fede nei princìpi dello Stato di diritto, come anzitutto l’uguaglianza di tutti gli uomini davanti alla legge e la presunzione di innocenza di ogni cittadino sino a quando non venga dimostrato colpevole (princìpi, va detto, non sempre rispettati dalla nostra Repubblica) mi spingono ad esporre con la massima obbiettività il contenuto del libro di Adriano. Come giornalista e ricercatore storico, poi, so bene che la storia va letta in ogni sua pagina; e, soprattutto, non va mai letta con gli occhi oggi, né con le lenti dell’ideologia.
“Avanguardia nazionale” nasce nel 1970: ma le sue premesse risalgono a prima, esattamente all’“incredibile ‘68”, quando il diffondersi, in tutta Italia, della contestazione studentesca e giovanile evidenzia un malessere da tempo serpeggiante nel Paese. Il 1° marzo del ’68, la storica “battaglia di Valle Giulia”, alla facoltà di Architettura di Roma occupata, tra studenti di sinistra e di destra contro gli agenti di P.S. (a difesa dei quali, come sappiamo, si schiererà il “controcorrente” Pasolini), evidenzia un fenomeno decisamente nuovo. Cioè l’obbiettiva maturità degli studenti stessi, che, pur appartenendo ad aree tra loro molto diverse, anzi, antagoniste (sono i giovani, tra cui appunto Tilgher, del “FUAN-Caravella”, dissidenti dal MSI, storico partito della destra italiana, e vari gruppi di “filocinesi”, nemici dichiarati del PCI), danno vita a una manifestazione in cui non alzano bandiere di partito o di movimento; e nel successivo scontro con la polizia sulle scalinate di Valle Giulia, evitano di combattersi anche tra loro. Nei giorni successivi, dal 2 al 10 marzo, ricorda ancora l’Autore, si sviluppano trattative tra “Caravella” e “cinesi” per costruire un’unità d’azione, nell’ interesse solo degli studenti per il rinnovamento dell’Università, che escluda il PCI, ritenuto mero pilastro del sistema. Purtroppo, rileva Tilgher, queste trattative falliscono, e il 16 marzo 1968 (esattamente dieci anni prima di Via Fani!), alla “Sapienza” l’intromissione, nelle vicende delle Facoltà occupate (Legge dal “Caravella”, Lettere dai “cinesi”), del PCI da un lato, e del MSI dall’altro, porterà di nuovo a uno scontro “di vecchio stampo”, tra attivisti di sinistra e di destra, con la polizia “terzo incomodo”. Qualcosa di simile, va detto, accadrà ancora nel “Secondo ‘68”, e cioè a febbraio ’77, sempre alla “Sapienza”: quando PCI e CGIL tenteranno, senza riuscirci, di imporre il loro ordine al “Movimento del ‘77” organizzando il comizio di Luciano Lama davanti al Rettorato. Ma il fatto veramente rivoluzionario, chiosa Adriano dal suo punto di vista, era che i giovani della “Caravella” (usciti poi, in gran parte, dal MSI) avevano finalmente deciso di posporre al lotta al comunismo a quella, invece, contro l’“establishment” .
Come caso di semplice alleanza tra forze politiche minori, di opposte ideologie ma unite dalla comune avversione ai partiti maggiori, non era la prima volta nella storia (già la Francia dei primi del ‘900, ad esempio, aveva visto singolari intese elettorali tra anarchici e monarchici contro liberal-repubblicani e socialisti!). Ma a Roma, in quell’inverno del ’68, si trattava di ben altro: di un tentativo d’intesa non episodica tra due forze (sinistra estrema e destra non “ufficiale”) contro quel gioco sporco che - dobbiamo riconoscerlo – ha caratterizzato per decenni la nostra storia del dopoguerra. Cioè alimentare artificiosamente - col consenso, dietro le quinte, di tutti i partiti - lo scontro tra opposti estremismi e tra “fascismo” e “antifascismo”, sulla pelle soprattutto di tanti giovani (dai morti del rogo di Primavalle del ’73 a quelli di Via Acca Larenzia del ’78, passando per le tante stragi da Piazza Fontana in poi): per lasciar così il potere nelle mani sempre delle stesse forze politiche, rafforzate dalla mancanza di alternative credibili.
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In questa stessa ottica, di superamento della vetusta - quanto comoda - contrapposizione fascismo-antifascismo, (che personalmente condivido quasi in pieno: era ridicolo parlare di un “pericolo fascista” nel 1968, figuriamoci oggi!), e delle stesse etichette politiche “destra e sinistra”, ritenute ormai superate (e qui sono meno d’accordo, anche se Tilgher affronta questo tema in modo certo ben diverso dai “Cinque stelle”), l’Autore ricostruisce, poi, le vicende della rivolta di Reggio Calabria del 1970- ’72. Nei primi mesi del ’70, come dicevamo, nasce Avanguardia Nazionale, come organizzazione di destra antisistema, ma . puntualizza l’Autore – non certo basata su una legittimazione della violenza in stile nazista o leninista; in essa confluiscono giovani di destra , in gran parte transfughi del MSI, accomunati dal rifiuto dello snaturamento della sua identità socioculturale che da decenni l’Italia sta subendo, nella sua condizione quasi di “colonia di fatto” degli USA, vincitori della Seconda guerra mondiale (e anche qui, non posso dare troppi torti al buon Tilgher).
A fine anni ’60, molti sono i segnali di malessere provenienti da un Sud in perenne ebollizione. La rivolta che esplode a Reggio a luglio del ’70 ha, in realtà, molteplici cause: determinante, però, è soprattutto l’accordo tra i partiti (specie DC e PSI, all’epoca guidato da Giacomo Mancini) per spostare il capoluogo regionale da Reggio a Catanzaro, “dando” invece l’Università a Cosenza; sullo sfondo, decenni e decenni di mancate promesse statali sul decollo economico del Mezzo - giorno, che generano il disgusto popolare per partiti e sindacati. La rivolta di Reggio durerà più di due anni, con scene cittadine degne di Belfast (intervengono addirittura tanks e paracadutisti) e, soprattutto, almeno 4 morti, parecchi arresti e condanne al carcere e al confino. Significativo. sottolinea ancora l’Autore, è che ad essa partecipa spontaneamente tutto il popolo reggino; compresi esponenti di rilievo di tutti i partiti locali, dal sindaco dc Battaglia al deputato missino Ciccio Franco, dall’altro deputato, comunista, Catanzariti, all’ex-partigiano Perna.
E mentre a Reggio prosegue la rivolta, la notte del 7 dicembre 1970 è quella in cui dovrebbe scattare il “golpe Borghese”, il tentativo di colpo di Stato guidato dall’ex. Comandante della X Mas, figura mitica della Seconda guerra mondiale e della RSI, punto di riferimento di ampi settori di destra insofferenti di una democrazia che ha le sue innegabili pecche, e che Borghese ha cercato di coagulare nella sua organizzazione, il Fronte Nazionale. Sul golpe Borghese , bloccato all’ultimo momento, esiste ormai un’ampia bibliografia (in quei giorni, tra l’altro, è atteso in Italia, per visita ufficiale, il dittatore jugoslavo Tito, che poi il 9 dicembre rinvierà tutto causa i vecchi contrasti sulla “zona B” di Trieste). Quella notte, i giovani di Avanguardia sono in attesa nella sede di Via dell’Arco della ciambella, nel centro storico: Tilgher ricostruisce il clima di attesa e di tensione che caratterizza la serata, ma dice di non sapere, tuttora, se effettivamente quella notte doveva scattare un vero colpo di Stato o qualcos’altro. E sorvola rapidamente sui retroscena organizzativi del progetto di golpe e, soprattutto, sui motivi della laconica comunicazione di annullamento che, alle 24, lui e gli altri militanti ricevono in sede: vuole però sottolineare che, se anche il piano fosse scattato, Avanguardia, d’accordo con Borghese, non avrebbe mai consentito che il potere passasse a una giunta militare (come invece sarebbe stato in seguito, a Santiago del Cile nel ’73 e a Buenos Aires nel ’76; e come era stato per accadere in Italia stessa nel ’64, col presunto “golpe” del gen. De Lorenzo)
Borghese muore poi in Spagna (dove è riparato dopo il fallimento del golpe) a fine agosto del ’74; il 2 settembre, Tilgher è tra i militanti di destra che riescono a vivacizzare il suo funerale (che le autorità vorrebbero tenere sotto tono), nella basilica di S. Maria Maggiore. Poco più di un anno dopo, a novembre del 75, inizierà la ricordata istruttoria penale a carico dei militanti di AVN: sulla quale, sino al processo del ’76, Adriano Tilgher sta per pubblicare un altro apposito saggio.
Un libro, questo, in perfetto equilibrio tra letteratura memorialistica e saggio storico che, comunque lo si voglia valutare, colma un indubbio vuoto nella ricostruzione di quegli anni: anche col ricorso a un’ampia documentazione fotografica, comprese copie di testi, documenti e volantini di AVN dei quali non era rimasta quasi più traccia.
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