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giovedì, 10 novembre 2016 14:55 |
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Fabrizio Federici
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"Gli USA hanno un nuovo presidente, che s' insedierà il 20 gennaio alla fine dell' attuale presidenza. L'elezione di Donald Trump viene accolta dalla Co-mai con il rispetto dovuto all' opinione pubblica americana, che s' è espressa democraticamente. Come Co-mai ,le comunità del mondo arabo in italia, rispettiamo il voto, indicativo della volontà popolare americana, ma non possiamo nascondere la preoccupazione derivante da dichiarazioni rilasciate, e intenti manifestati, dal neo eletto e dai suoi amici in Europa: in tema, soprattutto, di immigrazione, donne, politica estera, islam e mondo arabo".
Così Foad Aodi, Presidente delle Co-mai e preside della facoltà di Scienze della Riabilitazione e Fisioterapia dell' Università anglo-cattolica "Unisanpaolo", ribadisce un deciso no alle politiche di fomentazione dell'odio razziale e religioso in America e in occidente, e sottolinea come "l' America è da sempre la culla dell'immigrazione; non crediamo che oggi possa istigare allo scontro razziale, o peggio, considerare plausibili le idee di deportazione dei migranti e innalzamento di muri'.
Il voto americano, contro le aspettative, ha premiato il candidato che ha incarnato e alimentato le paure della classe media: "Noi non crediamo nell'odio e nella paura", prosegue Aodi, "ma nel dialogo e nel confronto. Ci auguriamo che s' arrivi presto alla definizione d' un' agenda internazionale che abbia come priorità i conflitti irrisolti nel Medio Oriente, a partire dalla causa palestinese, la questione dell'immigrazione e il dialogo con l'islam ed il mondo arabo.
Ma non ci illudiamo che sia un percorso semplice, oggi più che mai. "Temiamo - conclude il preside - la linea interventista annunciata da Trump; non dimentichiamo che la stessa politica negli ultimi anni ha dato via a guerre e conflitti in Medio Oriente ancora aperti, come in Afghanistan e Iraq; e ha alimentato la sfiducia del mondo arabo ed islamico nei confronti della diplomazia americana, che negli ultimi anni in sostanza ha fatto un gioco di rimessa".
Come giornalisti commentatori di politica estera, pur condividendo in buona parte l'analisi, e le preoccupazioni, del prof. Aodi (che rappresenta più associazioni e organismi), sentiamo però di poter portare, al dibattito, anche qualche contributo, se non positivo, almeno meno preoccupante. Nelle sue primissime dichiarazioni dopo la vittoria, infatti, Trump ha ribadito (copiando Sandro Pertini? Ammesso che sappia chi era...!) che vorrà essere il presidente "di tutti gli americani", e che il suo Governo non guarderà nè all'etnia, nè alla fede religiosa dei governati. L'esperienza della politica insegna poi che le "sparate" populiste e xenofobe (alla Bossi o alla Lepen, per intenderci), come, nel caso di Trump, il progetto di “erigere un muro anti-immigrazione al confine col Messico (il quale, tra l'altro, con le sue dissestate finanze, non sarebbe certo disposto a contribuire...), il più delle volte vengono ridimensionate non tanto da un rinsavimento dei loro autori, ma dalla dura realtà della quotidiana direzione d'un Paese. Certo l'elezione di Trump - personaggio a metà, diremmo, tra Berlusconi e Grillo, tra il classico miliardario che si butta in politica e il populista antipolitico, originario spesso dello spettacolo - s'inserisce in un fenomeno, ormai mondiale, di disgusto della gran parte dell'opinione pubblica per i politici di professione, ormai coinvolti sino al collo nel fango del potere: ecco il motivo principale dei successi dei vari Trump, Farage, Le Pen, Zhirinowskij, Fortuym e Silvio Berlusconi (il fenomeno, non dimentichiamo, è partito dagli anni '90).
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Ma un conto è fare il leader d'un movimento populista pur forte e diffuso, un altro assai diverso è governare quotidianamente un grande Paese. Erano altri tempi, certo: ma, tanto per restare in tema USA, non dimentichiamo che il populista, ultraliberista e guerrafondaio Reagan, alla prova dei fatti si rivelò il presidente che avviò il grande disarmo nucleare insieme a Gorbaciov, limitò al massimo le avventure militari e - come prevedeva nel marzo 1988, su "Panorama", un economista di stampo kennediano come Kenneth Galbraith - sarebbe stato costretto, negli ultimi anni del suo secondo mandato, a limitare drasticamente i piani di ridimensionamento dell' intervento pubblico in economia (come in effetti fu: al punto di apparire, in confronto al Bush Jr. d'un decennio più tardi, un pericoloso socialista di stampo europeo...!). Comunque, tornando più strettamente a Trump, è indubbio che oggi, anche in USA, le cose stanno cambiando da più punti di vista, anche se, a volte, in modo apparentemente contrastante. Alla richiesta di liberismo, anzitutto di meno tasse, emergente, da anni, in consistenti settori della "middle class" (cui ha prontamente risposto il "tycoon" repubblicano), s' affianca oggi, per la prima volta nella storia statunitense, un altrettanto consistente (pur spesso inconsapevole) "richiesta di socialdemocrazia", quantomeno d'un maggiore Stato sociale: da parte non solo dei lavoratori dipendenti (anche d'orientamento repubblicano), ma anche di nuclei non trascurabili dei ceti medi intellettuali. Questo, grazie anche ai progressi fatti su questa strada, pur fra tante incertezze e difficoltà, dall'amministrazione Obama (vedi anzitutto la riforma sanitaria). Mentre il successo riscosso mesi fa, nelle primarie del Partito democratico, da Bernie Sanders, politico più vicino ai socialdemocratici europei che ai classici "democratici" USA, lo dimostra in pieno.
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