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Fabrizio Federici
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Al Quirino di Roma, sino al 4 febbraio, Gabriele Lavia, per la Fondazione Teatro della Toscana, mette in scena Il Padre, uno dei più tormentosi drammi del “teatro interiore” (così chiamato perché solo apparentemente naturalista: secondo molti critici, quel che va veramente in scena è solo la tormentata psiche dello stesso Autore) dello svedese August Strindberg (1849-1912), col norvegese Ibsen tra i massimi rappresentanti della drammaturgia scandinava.
Nel salotto della casa del capitano di cavalleria Adolf (con tappezzeria, moquette e sinanche rivestimenti di sedie e divani tutti di velluto color rosso sangue), in piena unità aristotelica di tempo, luogo e azione, assistiamo alla “Danza macabra” (il-padre per citare l’altro celebre capolavoro di Strindberg, dalla trama simile, ma di 14 anni posteriore) tra lui (Gabriele Lavia) e la moglie (Federica DI Martino). Il capitano – intransigente uomo di scienza – si trova in urto con la moglie per quanto riguarda l’educazione della figlia Berta (Anna Chiara Colombo), cui è molto affezionato. La moglie, tuttavia, apparentemente sottomessa – secondo la morale dell’epoca – al marito in tutto, lungi dal cedere su una questione che per lei è fondamentale, si pone con lui in aperta sfida.
Conoscendone le umane debolezze, approfitta di quest’ultime per giocare una carta obbiettivamente eccessiva, considerando il tema della discussione: instilla nell’uomo il dubbio sulla sua paternità. Vedendo il “successo” di questa provocazione, cerca inoltre di farlo interdire, facendolo dichiarare incapace di intendere e di volere, d’accordo col suo medico (Michele Demaria). Sentendosi accerchiato, il capitano sprofonda sempre più in un abisso di follia, incapace di sostenere un confronto diretto con la moglie, donna volitiva e priva di scrupoli.
Finirà definitivamente pazzo, al termine della pièce, ritrovando un minimo di pace tra le braccia della sua protettiva, anziana nutrice (Giusi Merli): e indossando, in ultimo, un vestito della moglie (netto richiamo al mito di Ercole e della regina Onfale, dove lo scambio dei vestiti simboleggiava la resa d’un uomo, pur valoroso, alla potenza della donna vista come archetipo della natura e della “Grande Madre”. Al tempo stesso, Strindberg preannuncia la novecentesca riscossa della donna dopo millenni di supremazia maschile, appuntamento storico ineludibile).
Sullo sfondo, restano costantemente i “leit-motiv” del panorama culturale e spirituale di fine ‘800: positivismo, spiritualismo (e spiritismo), psicanalisi appena agli albori.
Grande interpretazione, quella di Lavia, affiancato da validi comprimari (tra cui anche Gianni de Lellis, e i giovani attori diplomati alla Scuola “Orazio Costa” del Teatro della Toscana, Ghennadi Gidari e Luca Pedron). Le scene sono di Alessandro Camera, i costumi, molto curati, di Andrea Vuiotti; le musiche e luci di Giordano Corapi e Michelangelo Vitullo.
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