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Fine del sistema di Bretton Woods: dagli USA alla crisi del 2008 e alle misure correttive UE di M.Draghi

lunedì, 16 agosto 2021 17:14

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Un momento della conferenza di Bretton Woods del 1944
Fabrizio Federici
Il 15 agosto sono passati esattamente 50 anni da quel Ferragosto del 1971 a Camp David, quando l’allora presidente Usa, Richard Nixon, pose fine alla convertibilità del dollaro in oro e seppellì gli accordi di Bretton Woods.
Raggiunti nei negoziati internazionali del luglio 1944 (a guerra mondiale ancora in corso), nell'omonima località del New Hampshire, avevano fissato le regole per una futura, ordinata (in teoria almeno!) espansione degli scambi internazionali. Il dollaro diventava la moneta di riferimento cui erano legate con cambi fissi tutte le altre valute, mentre il biglietto verde era a sua volta agganciato all’oro da un peg di 35 dollari l’oncia.
Di fatto, la divisa Usa nei decenni successivi venne utilizzata come moneta di riserva da tutti gli altri Paesi (era il noto “Imperialismo del dollaro”), e questo permetteva al Tesoro degli Stati Uniti di stampare, con classiche manovre monetariste, tutti i dollari di cui aveva bisogno, collocandoli anche, in gran parte, nel resto del mondo. Implicitamente, era un regime di svincolo dalla bilancia dei pagamenti, quasi un via libera internazionale sul piano valutario.
Ma la guerra del Vietnam (scoppiata nel 1964), coi suoi costi astronomici, il forte aumento della spesa pubblica (anche per la realizzazione della “Grande Società”, il programma di Welfare dell’Amministrazione Johnson che proseguiva direttamente il “NewDeal” di Roosevelt e il “Fair deal” di Truman) e del debito americani, e, più in generale, il surriscaldamento dell’economia USA (causa appunto la guerra nel Sud-est asiatico) segnarono la graduale fine del sistema istituito a Bretton Woods.
Ciò spinse il Presidente USA, il 15 agosto del '71, ad annunciare la sospensione della convertibilità dollaro-oro (regime che, visto specialmente con gli occhi di oggi, era d’impronta, se non medioevale, fortemente ottocentesca: il vecchio “Gold standard”). Le riserve statunitensi, infatti, si stavano pericolosamente assottigliando: il Tesoro USA aveva già erogato oltre 12.000 tonnellate di oro, in risposta alle richieste degli utenti americani e stranieri (risparmiatori, investitori e speculatori vari, ovviamente)
.A Dicembre 1971, l’abbandono degli accordi da parte dei membri del G10 e lo “Smithsonian Agreement” diedero il via al nuovo regime internazionale di fluttuazione dei cambi. A Washington, infatti, presso lo Smithsonian Institute, il G-10, per rimediare al caos monetario internazionale seguìto alla fine del sistema di Bretton Woods, decise una svalutazione del dollaro del 7,9%, fissando un cambio di 38 dollari per oncia d'oro, senza, però, ripristinare l'obbligo per gli USA di scambiare dollari con oro. Furono anche modificati i tassi di cambio tra le altre monete, e si stabilì una banda di oscillazione del 2,25% attorno alle nuove parità.
Sul piano interno USA, invece, la misura presa da Nixon ad agosto, con forte “sapore” di corso forzoso, cioè sistema a carta moneta inconvertibile (un po’ come quello che, per volere della Destra storica, era stato in vigore in Italia dal 1866 a fine ‘800), serviva soprattutto a rilanciare l’economia americana sul fronte delle esportazioni. Sempre il 15 agosto il presidente americano vi univa quella che, sin dai tempi di Colbert e Luigi XIV, è la più classica – ma anche la più dannosa - delle misure per potenziare le esportazioni di un Paese: cioè l’introduzione d' una tassa (nel caso americano, del 10%) sulle importazioni dagli altri Paesi. Ma a Dicembre successivo, lo Smithsonian Agreement, prevedendo l’effetto boomerang di queste misure protezionistiche (cioè lo scoppio di guerre commerciali con altri StatI), aboliva la tassa sulle importazioni USA: sostituendola con la citata, più morbida, svalutazione del dollaro. Sia pure in un contesto economico diverso, gli USA, in questo, imitavano i “cugini” britannici, che 4 anni prima, a novembre 1967, col governo laburista di Harold Wilson avevano dovuto decidere di svalutare la mitica sterlina, anche appunto per ridare fiato alle esportazioni.
Sul piano internazionale, con le decisioni dell’agosto ’71 e le correzioni del Dicembre successivo, una volta eliminate le costrizioni legate al gold standard e alla sound money, le nazioni sono state in grado di operare su deficit strutturali e - dedicandosi alle piu’ spregiudicate manovre monetariste e finanziarie - far crescere a dismisura i loro indebitamenti. Sino, però, a livelli senza alcun precedente: che alla fine, in sintesi, hanno portato a quelli che alcuni (esagerando ma non troppo) han definito i “nuovi ‘29”; le devastanti crisi, nate soprattutto da “bolle” finanziario/speculative, prima del 1987, poi, con l’incredibile fallimento dell’americana Lehman Brothers, del 2008 (crisi che, non dimentichiamo, non è affatto finita, andandosi in ultimo a saldare con quella causata, in tutto il mondo, dal Covid-19).
Il 26 luglio 2012, l'Unione europea iniziava finalmente a reagire: con l'annuncio a Londra, da parte del neopresidente della BCE Mario Draghi, che la Banca Centrale Europea avrebbe fatto «tutto il necessario» (era il celebre "Whatever it takes") per salvare l'euro, mentre la crisi finanziaria stava per contagiare grandi economie, come la spagnola e l'italiana. Il 22 gennaio 2015, Mario Draghi avviava l'atteso programma del " Quantitative Easing", con cui la BCE ha acquistato forti quantitativi di titoli di Stato dei Paesi dell'Eurozona per 60 miliardi di euro, sino a settembre di 5 anni fa (e, con parziali riprese, anche oltre).
Mentre negli USA, dopo l’iniziale espansione economica del dopo ‘71 (facilitata, indubbiamente, anche dal graduale disimpegno americano dal Sudest asiatico), il nuovo regime internazionale in sostituzione del gold standard è coinciso, poi, con la graduale, lenta ma apparentemente inarrestabile, perdita di ricchezza da parte della classe media Usa. Il periodico, specializzato in economia, “Money.it”, riporta ultimamente dati di “Zerohedge”, blog anonimo statunitense su temi di finanza e geopolitica, e del capo economista della Deutsche Bank, Jim Reid: evidenzianti, nei decenni, il “gap” di benessere da colmare, nella vita dei ceti medi USA (per non parlare, è chiaro, delle classi più umili!): che ciclicamente si ripropone come primo problema da risolvere per tutti i Presidenti, da Reagan a Biden.
Problema che, senza ovviamente dimenticare Covid-19 (con le sue pericolose varianti) e politica estera (Iran, Iraq e Afghanistan in primo luogo), sarà di nuovo, probabilmente, uno dei principali temi di discussione nelle elezioni “di medio termine” del 2022.
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