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Fabrizio Federici
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Per onestà morale e intellettuale devo dire subito che sono d’accordo solo in parte con le tesi esposte, nel saggio autobiografico “La mia avanguardia” (Trabia, Avatar ed,. 2020, €. 22,00), dallo scrittore e giornalista Adriano Tilgher. Che nel libro ricostruisce soprattutto la storia del movimento di destra “Avanguardia Nazionale” e, più in generale, di quegli anni cruciali della Repubblica che vanno dal mitico ’68 al 1975: quando, il 27 novembre, 72 presunti dirigenti e militanti di Avanguardia vengono arrestati con l’accusa di violazione della legge Scelba del ‘53 (per ricostituzione del disciolto Partito Nazionale Fascista: il processo si terrà poi nel ’76, portando, in ultimo, allo scioglimento dell’organizzazione). Gli anni della contestazione generale, dei fremiti libertari del movimento studentesco; ma anche delle “stragi di Stato” (da Piazza Fontana all’“Italicus”), del malessere sociale, del terrorismo (nel 1970 nascono le Brigate Rosse).
Sono d’accordo solo in parte, dicevo: e questo perché, avendo da sempre, come riferimento intellettuale, il socialismo democratico, non condivido in pieno le tesi dell’Autore. Ma la fede nei princìpi dello Stato di diritto, come anzitutto l’uguaglianza di tutti gli uomini davanti alla legge e la presunzione di innocenza di ogni cittadino sino a quando non venga dimostrato colpevole (princìpi, va detto, non sempre rispettati dalla nostra Repubblica) mi spingono ad esporre con la massima obbiettività il contenuto del libro di Adriano. Come giornalista e ricercatore storico, poi, so bene che la storia va letta in ogni sua pagina; e, soprattutto, non va mai letta con gli occhi oggi, né con le lenti dell’ideologia.
“Avanguardia nazionale” nasce nel 1970: ma le sue premesse risalgono a prima, esattamente all’“incredibile ‘68”, quando il diffondersi, in tutta Italia, della contestazione studentesca e giovanile evidenzia un malessere da tempo serpeggiante nel Paese. Il 1° marzo del ’68, la storica “battaglia di Valle Giulia”, alla facoltà di Architettura di Roma occupata, tra studenti di sinistra e di destra contro gli agenti di P.S. (a difesa dei quali, come sappiamo, si schiererà il “controcorrente” Pasolini), evidenzia un fenomeno decisamente nuovo. Cioè l’obbiettiva maturità degli studenti stessi, che, pur appartenendo ad aree tra loro molto diverse, anzi, antagoniste (sono i giovani, tra cui appunto Tilgher, del “FUAN-Caravella”, dissidenti dal MSI, storico partito della destra italiana, e vari gruppi di “filocinesi”, nemici dichiarati del PCI), danno vita a una manifestazione in cui non alzano bandiere di partito o di movimento; e nel successivo scontro con la polizia sulle scalinate di Valle Giulia, evitano di combattersi anche tra loro. Nei giorni successivi, dal 2 al 10 marzo, ricorda ancora l’Autore, si sviluppano trattative tra “Caravella” e “cinesi” per costruire un’unità d’azione, nell’ interesse solo degli studenti per il rinnovamento dell’Università, che escluda il PCI, ritenuto mero pilastro del sistema. Purtroppo, rileva Tilgher, queste trattative falliscono, e il 16 marzo 1968 (esattamente dieci anni prima di Via Fani!), alla “Sapienza” l’intromissione, nelle vicende delle Facoltà occupate (Legge dal “Caravella”, Lettere dai “cinesi”), del PCI da un lato, e del MSI dall’altro, porterà di nuovo a uno scontro “di vecchio stampo”, tra attivisti di sinistra e di destra, con la polizia “terzo incomodo”. Qualcosa di simile, va detto, accadrà ancora nel “Secondo ‘68”, e cioè a febbraio ’77, sempre alla “Sapienza”: quando PCI e CGIL tenteranno, senza riuscirci, di imporre il loro ordine al “Movimento del ‘77” organizzando il comizio di Luciano Lama davanti al Rettorato. Ma il fatto veramente rivoluzionario, chiosa Adriano dal suo punto di vista, era che i giovani della “Caravella” (usciti poi, in gran parte, dal MSI) avevano finalmente deciso di posporre al lotta al comunismo a quella, invece, contro l’“establishment” .
Come caso di semplice alleanza tra forze politiche minori, di opposte ideologie ma unite dalla comune avversione ai partiti maggiori, non era la prima volta nella storia (già la Francia dei primi del ‘900, ad esempio, aveva visto singolari intese elettorali tra anarchici e monarchici contro liberal-repubblicani e socialisti!). Ma a Roma, in quell’inverno del ’68, si trattava di ben altro: di un tentativo d’intesa non episodica tra due forze (sinistra estrema e destra non “ufficiale”) contro quel gioco sporco che - dobbiamo riconoscerlo – ha caratterizzato per decenni la nostra storia del dopoguerra. Cioè alimentare artificiosamente - col consenso, dietro le quinte, di tutti i partiti - lo scontro tra opposti estremismi e tra “fascismo” e “antifascismo”, sulla pelle soprattutto di tanti giovani (dai morti del rogo di Primavalle del ’73 a quelli di Via Acca Larenzia del ’78, passando per le tante stragi da Piazza Fontana in poi): per lasciar così il potere nelle mani sempre delle stesse forze politiche, rafforzate dalla mancanza di alternative credibili.
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