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Violetta Chiarini in scena
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Fabrizio Federici
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L'emergenza coronavirus, se da un lato costringe milioni di italiani ad una pesante, innaturale – per quanto necessaria – situazione di “arresti domiciliari”, dall'altro può rappresentare un'occasione preziosa per interrompere la nevrotica corsa quotidiana, fermandoci un attimo a riflettere, necessariamente, sul senso della vita, il rapporto con Dio e con la natura, coi nostri cari e con tutti gli altri, i conseguenti progetti per il futuro.
Riflessione e concentrazione favoriscono la creatività di saggisti, scrittori, artisti, musicisti, uomini di teatro (del quale venerdì 27 marzo è stata celebrata su streaming, con spettacoli a sipari abbassati, la giornata mondiale, con collegamenti ai siti del Metropolitan Theatre di New York e del Carlo Felice di Genova) e di cinema. Tra questi ultimi, abbiamo ascoltato, nella sua casa di campagna nel Reatino, Violetta Chiarini, nome storico del teatro italiano. Già diplomata allo Studio di Arti Sceniche di Alessandro Fersen e frequentatrice di master class di altri grandi maestri dello spettacolo, attrice nel teatro di prosa e musicale (sia sul palcoscenico, che ai microfoni) - e per lo schermo, cantante e autrice di testi, la Chiarini - membro anche del CENDIC, Centro Nazionale di Drammaturgia Italiana Contemporanea - ha creato spettacoli che salvaguardano forme espressive musical-teatrali patrimonio dell’identità italiana ed europea, con forte attenzione per le nuove generazioni. Tutto ciò, rimanendo personaggio fuori dal coro, mai omologatosi alle logiche di mercato e di potere dello show-business, e riuscendo ad anticipare, con le sue creazioni, anche tendenze di cultura e di costume; un’artista, insomma, orgogliosa di essere rimasta sempre fedele alle sue convinzioni e al principio della “santità laica dell’attore”, inculcatole dal suo Maestro Fersen.
Violetta, come stai vivendo questa situazione di “prigionia” che riguarda tutti noi?
Sto tesaurizzando lo stop a tutte le attività, comprese le relazioni sociali dirette, con un provvidenziale ritiro nella mia casa di Casperia, in provincia di Rieti, nella campagna sabina. Qui ho anche il mio Centro Culturale “Piccolo Teatro del Violangelo”, col quale da oltre dieci anni svolgo attività di cultura, di spettacolo e di ricerca nel territorio.
Anni fa, tu hai creato l' Associazione “Terzo Millennio - Compagnia del Violangelo”, che ha presentato – in Italia e all'estero - performances di prosa e musica, assimilate dalla critica autorevole al Kabarett musical-letterario: spettacoli dal taglio brillante e giovanile, accomunati da una forte ricerca filologica e letteraria e dall’intento di valorizzare aspetti della nostra cultura trascurati da quella ufficiale, o dalla pigrizia mentale del pubblico. Col Centro Culturale, invece, collaborando anche con altre realtà - come Teatro Helios di Bordighera, Bis Tremila Bideri Produzioni, Teatro dell’Albero di Imperia, e altre - hai fatto conoscere, in ambito teatrale, il nome della “Perla della Sabina”, come viene chiamata l’antica Aspra, oggi appunto Casperia: uno dei borghi antichi più belli d'Italia (citato addirittura nell' “Eneide” virgiliana) Quale attività, tra queste, ha maggiormente favorito l'evoluzione del tuo pensiero?
Il Violangelo è sempre stato il mio pensatoio, il “Buen retiro” contro lo stress metropolitano di Roma, che pure adoro e dove normalmente vivo. Questo periodo di quarantena, che ho la grande fortuna di trascorrere nella pace e nel verde, mi facilita una profonda riflessione sulla vita, mi stimola pensieri e considerazioni affatto nuovi, in cui l’ego si fa da parte, per lasciar scaturire un senso di forte legame con tutta l’umanità e con la natura, mai provato prima così profondo e potente. E ripenso alle parole d’un’ intellettuale indiana riguardo alla pandemia, quando dice che la Natura, grande sperimentatrice, scarta le specie che non supportano l’intero sistema. Può essere vero, se pensiamo che nel corso di innumerevoli millenni sono scomparsi i dinosauri e altre specie, compreso l’uomo di Neanderthal. E noi siamo sicuri del successo della nostra specie, di sopravvivere per sempre, di essere di beneficio all’intero sistema? C’è da dubitarne fortemente, data la nostra crudeltà verso il pianeta Terra, a cui abbiamo distrutto piante e animali, e data anche la nostra mancanza di evoluzione come specie. Mentre le altre specie animali, infatti, uccidono solo perché minacciate, o affamate, noi uccidiamo le altre specie non per sopravvivenza, ma per senso di superiorità e di dominio, quando non per solo piacere. Il problema coronavirus non è la Cina o i cinesi, ma la nostra coscienza. Viviamo, infatti, pensando di essere separati da tutti, in una disconnessione che ha, in ogni campo, le sue ripercussioni. Vediamo infatti la violenza, figlia della paura, in tutte le sue forme aumentare in ogni parte del mondo; e il dilagare del cancro, delle calamità naturali, del coronavirus…
Tutto questo, mentre invece l'umanità da sempre, ben prima della rivoluzione telematica, è spiritualmente connessa con tutto il mondo e con le altre specie viventi. Forse, questa pandemia ce lo farà finalmente capire a fondo…
Ora o mai più!, Direi che questo è il momento della nostra trasformazione, che non dobbiamo assolutamente perdere, se vogliamo creare un mondo migliore per noi e per quelli che verranno. Dobbiamo capire che la solitudine è un’illusione, perché in realtà siamo tutti legati da una rete di relazioni tra persone e cose, siamo collegati al tutto; se riusciamo a percepire dentro di noi questi legami con l’intero universo, non ci sentiamo più separati dal mondo, e gli altri non diventano più i nemici da temere e combattere, bensì i fratelli con cui dialogare. È così che deponiamo le nostre armi interiori e diventiamo – per riprendere lo storico “Discorso della Montagna” del Vangelo - costruttori di pace. Questo tema del cambiamento, della rivoluzione umana di ciascun individuo - fulcro del pensiero del mio Maestro spirituale Daisaku Ikeda (il filosofo, educatore e maestro buddhista giapponese, attuale Presidente della Soka Gakkai International, N.d.R.) - cerco di svolgerlo nello scrivere testi (anche poetici e saggistici) e preparando spettacoli contenenti appunto tale messaggio, provando a dimostrare - sempre attraverso il linguaggio teatrale e l’evento scenico - che non è affatto utopico.
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