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Fabrizio Federici
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Un grande spettacolo ha avuto successo, in questi giorni, al "Quirino" di Roma: "La cena delle belve", testo dell'autore siriano Vahé Katchà (1928- 2003), tradotto e adattato, anni fa, da Vincenzo Cerami e con elaborazione drammaturgica di Julien Sibre. Pluripremiato spettacolo teatrale francese, giudicato, al "Molières 2011", migliore spettacolo privato, questa pièce, in versione italiana, ha inchiodato veramente gli spettatori alla poltrona, grazie anzitutto al talento di Cerami (scomparso nel 2013) e di Sibre, e dei due registi, lo stesso Sibre e Virginia Acqua.
Nella versione originale, "La cena delle belve" si svolgeva nella Parigi occupata dai nazisti della Seconda guerra mondiale; l' adattamento italiano riambienta l'azione nella "Roma nazista" di fine 1943, la Roma del terrore e dei rastrellamenti, della fame e della Resistenza da poco nata, dopo il "battesimo del fuoco" di settembre a Porta s. Paolo.
Protagonisti sono 7 amici, in un contesto scenico un appartamento in un palazzo di Roma, forse al quartiere Prati) pienamente conforme ai canone teatrale aristotelico delle 3 unità (di tempo, luogo e azione). La cena è per festeggiare il compleanno di Sofia (Marianella Bargilli), moglie del professionista romano Pietro (Francesco Bonomo): invitati sono 5 amici, Andrea (Maurizio Donadoni) e un medico (Gianluca Ramazzotti), ambigui e opportunisti, Vittorio (Ruben Rigillo), ex-combattente cieco di guerra, Vincenzo (Emanuele Salce, figlio del grande Luciano), professore di lettere, e Francesca (Silvia Sirvo), ragazza vicina alla Resistenza. La piacevole serata viene interrotta dal' irruzione, in casa, del comandante nazista delle SS Kaubach (un ottimo Ralph Palka): alla ricerca di ostaggi da prendere in consegna nella rappresaglia per l'assassinio, avvenuto proprio quella sera davanti al palazzo, di due ufficiali tedeschi. Con sadica "cortesia", Kaubach lascia agli stessi 7 amici la scelta di decidere i 2 che, tra loro, dovranno offirtìrsi come ostaggi.
La situazione - a dir poco drammatica, mentre passano inesorabilmente le 2 ore concesse dal colonnello per decidere - diventa la cartina di tornasole del carattere e della psicologia dei personaggi , "delli vizi umani e del valore": mentre assistiamo al prevedibile "scaricabarile", emergono inevitabilmente vecchi rancori e invidie ipocritamente mascherati, piccoli e grandi egoismi, meschinità e grandezze. Il contesto, pur nella grande diversità delle situazioni, ricorda anche quello de perfetti sconosciuti, il premiato film del 2016 di Paolo Genovese; mentre lo stratagemma (che fallisce miseramente) di spingere Sofia, la moglie di Pietro, a concedersi al comandante nazista in cambio della libertà per tutti ricorda la trama di "Boule de suif", il celebre racconto di Maupassant (a sua volta rivisitato, in seguito , da Dudley Nichols e John Ford per l' immortale "Ombre rosse") ambientato nella Francia del 1870, invasa dai prussiani. L'epilogo della vicenda lascerà tutti shakespearianamente colpiti, alle prese con la propria coscienza.
Le scene e i costumi, che ricreano perfettamente l'atmosfera anni '40, sono di Carlo De Marino e Francesca Brunori, disegno luci di Giuseppe Filipponio; i disegni animati e le proiezioni sulo sfondo (che, però, stridono un po' con tutto il contesto scenico, risultando forse superflui) di Cyril Drouin.
Un'opera che fa davvero riflettere, nel solco del teatro d'impegno civile e, più specificamente, dei grandi testi sulle tragedie dei totalitarismi novecenteschi, dal "Silenzio del mare" di Vercors a "Le mani sporche" di Sartre.
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