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L’uomo dal fiore in bocca al Quirino di Roma

giovedì, 15 dicembre 2016 08:52

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Gabriele Lavia
Fabrizio Federici
Esattamente ottant’anni dopo la morte di Pirandello (dicembre 1936, con quei funerali in forma strettamente privata che sembrarono veramente voler chiudere le porte in faccia al fascismo, dopo dodici anni di altalenanti rapporti), al teatro Quirino di Roma è in scena sino al 18 dicembre, per la regìa di Gabriele Lavia, L’uomo dal fiore in bocca.
Un atto unico (rappresentato per la prima volta nel 1922 - ’23), tratto dalla novella La morte addosso, che potremmo definire un’antologia dei temi più cari al “Mostro sacro” agrigentino: il senso della vita (anche nei momenti più tragici), l’incombere della morte, il rapporto (e, a volte, l’incomunicabilità) tra i sessi e tra le generazioni, la solitudine dell’uomo moderno, la relatività d’ogni cosa (siamo, negli anni segnati dall’affermarsi delle teorie di Einstein: che Pirandello avrà modo d’incontrare in USA nel 1935, un anno prima di morire).
In una sperduta stazione del Mezzogiorno (resa con una imponente scenografia in legno di pioppo e d’abete, progettata da Alessandro Camera e realizzata negli storici laboratori del fiorentino Teatro della Pergola), due personaggi, entrambi “in cerca d’autore”, attendono per ore l’arrivo del loro treno.
L’uno (lo stesso Gabriele Lavia) è un uomo che sa di dover morire, condannato da un tumore (il “fiore in bocca”, appunto): e, tra l’Ivan Ylic di Tolstoj e il cavaliere del “Settimo sigillo” di Bergman, gioca la sua partita a scacchi con la morte dosando le mosse con ironica amarezza.
L’altro (Michele Demaria), è un “borghese piccolo piccolo”, forse un agente di commercio: che, un po’ come l’uomo con le valige di Ionesco, non lascia un attimo una sequenza di pacchi e pacchettini, che si porta stabilmente dietro.
Una “strana coppia”: nella quale il confronto tra l’uomo ormai al termine della vita e l’altro che a stento riesce a sottrarsi alla quotidiana stretta delle difficoltà di lavoro e familiari, va avanti a fatica, ma va avanti.
Ogni tanto, da “terzo incomodo”, ecco apparire una donna, anche lei nei classici costumi anni ’30 (realizzati da Elena Bianchini).
E’ la moglie del malato (Barbara Alesse): che, però, per lui non rappresenta una consolazione, ma, al contrario, un ostacolo alla sua disperata ricerca di quel poco di vita che ancora gli rimane (la stazione, l’attesa della morte, quelle rotaie di ferro che sembrano correre all’infinito, una moglie che non entra, ma- causa tanti anni di gravi incomprensioni – è tenuta fuori, per volere del marito, ad aspettare l’evolversi del dramma… come non pensare alla lenta agonia proprio di Tolstoj, in quell’allucinata stazione di Astapovo, ai primi di novembre 1910?).
E fuori, cosa c’è? Il buio avvolgente della notte, metafora di un mondo che non può capire i due personaggi, soprattutto l’uomo dal fiore in bocca; e una pioggia incessante, quasi da film giapponese… (ricordate l’inizio di “Rashomon”?).
Mentre tutto corre inesorabilmente verso la fine, nel rispetto delle celebri unità aristoteliche di tempo, luogo e azione. E la morte , per dirla con Pavese , Brel e De Andrè, verrà, ”avrà i tuoi occhi”e non ti affronterà in duello, ma si addormenterà “al tuo fianco”.
Uno spettacolo da non perdere, organizzato da Fondazione Teatro della Toscana e Teatro Stabile di Genova: con musiche di Giordano Corapi e luci di Michelangelo Vitullo.
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