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Alla scoperta del Parco storico archeologico di Sant'Antioco - (I parte)

venerdì, 01 settembre 2023 16:11

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Necropoli di Is Pirixeddus, particolare di una tomba ad arcosolio di un complesso catacombale
Dal nostro inviato
Francesca Bianchi
Il mese scorso ho avuto il piacere di realizzare un reportage al Parco storico archeologico di Sant'Antioco (SU), gestito da quasi quarant'anni dalla Cooperativa Archeotur. Il reportage uscirà in due puntate. In questa prima parte l'operatore turistico Archeotur Emanuele Lai ci guida alla scoperta del Villaggio Ipogeo, del Museo etnografico Su magasinu ‘e su binu, del Forte Su Pisu, della Necropoli di Is Pirixeddus e dell'Acropoli.
Ringrazio la dott.ssa Sara Muscuso, direttrice del Polo archeologico di Sant'Antioco, e Rita Lepuri, Presidente della Cooperativa Archeotur, per aver reso possibile questo servizio.

Sig. Lai, quando e con quali intenzioni è nata la Cooperativa Archeotur?
La Cooperativa Archeotur s.r.l. si è costituita il 3 maggio 1984 per iniziativa di dieci giovani diplomati disoccupati di Sant'Antioco, i quali avevano frequentato un corso di formazione professionale ENAP mirato a creare operatori turistici con formazione archeologica. L'intento prioritario era quello di dare piena e stabile occupazione ai soci, iniziando a occuparsi dell'area archeologica di Sant'Antioco e presentando progetti per la sua valorizzazione. Oggi Archeotur è una cooperativa storica che da quasi 40 anni gestisce i siti del Parco storico archeologico di Sant'Antioco.

Uno dei siti più affascinati di Sant'Antioco è rappresentato dal Villaggio Ipogeo, costituito da tombe puniche che per oltre due secoli, a partire all'incirca dal 1754, sono state riutilizzate come case dalle famiglie povere di Sant'Antioco. Cosa sappiamo di Is Gruttas, "le grotte"? In che modo, da tombe, si sono trasformate in abitazioni?
Il Villaggio Ipogeo di Sant'Antioco, oggi un piccolo angolo verde in mezzo alle case, fa parte di una vastissima necropoli cartaginese che si estendeva all'incirca per 10 ettari, dove gli archeologi hanno stimato che ci fossero almeno 1500 tombe ad ipogeo, datate tra la fine del VI e il III sec. a.C. Molte di queste tombe nei secoli sono state riutilizzate. Le tombe sotto la basilica, dove oggi c'è il centro storico, collegate le une con le altre, vennero utilizzate come catacombe dai cristiani già a partire dal II sec. d.C.; sono le uniche in Sardegna. Nel versante ovest di questa collina, circa 350 tombe sono state utilizzate per quasi 1000 anni come rifugi e per 250 anni come abitazioni da parte della classe più povera del paese. Quando, poi, il paese ha iniziato a espandersi, sono diventate le cantine di gran parte delle abitazioni costruite lì intorno. Tombe, rifugi, abitazioni, infine cantine: queste sono state le destinazioni d'uso nel corso dei secoli.
In queste tombe puniche, che oggi di punico non hanno più nulla, non c'era luce, non c'era acqua, non c'erano i servizi igienici. Qui, in condizioni igieniche di estrema precarietà, ancora nel 1929 vivevano 700 persone divise in 175 famiglie. Queste persone venivano occupate per fare i lavori pesanti, quelli che nessuno voleva fare. Si pativa la fame. Spesso i bambini venivano donati alle famiglie benestanti che li adottavano. Le bambine venivano impiegate come serve, come lavandaie. Lavoravano, mangiavano, dormivano su un letto. Spesso la padrona faceva studiare la serva o le preparava il corredo, dandole la possibilità di maritarsi. Per il maschio della stessa età, 9-10 anni, la vita non era semplice: veniva portato via la notte e condotto negli ovili, per essere impiegato dal pastore come servo. Veniva portato via la notte per evitare che riconoscesse la strada e potesse tornare a casa. Gli uomini adulti lavoravano in campagna, ma anche come manovali, come pastori, come facchini, quindi nelle tonnare seicentesche e settecentesche della zona e al porto di Sant'Antioco. Durante il ventennio fascista, erano loro che nei piccoli bastimenti caricavano a spalla sulle navi il carbone che veniva estratto nelle miniere di Carbonia.

Quando smisero di essere abitazioni?
Nei primi anni Cinquanta del secolo scorso vennero costruite le prime case popolari in un'area che oggi corrisponde al centro urbano, ma allora era l'estrema periferia del paese; queste case avevano tutti i servizi. Molti "gruttaius" ('abitanti delle grotte') a cui vennero assegnati gli alloggi popolari non volevano andare via dalle grotte, specialmente gli anziani, che non conoscevano altro luogo che la tomba dove erano nati. In molti casi, per poterli mandare via, il comune fece intervenire le forze dell'ordine. Molti di notte scapparono dalle nuove dimore e fecero ritorno nelle "loro" tombe. Nei primi anni '80 qui vivevano ancora due o tre anziani, non sapremo mai se per scelta o per necessità. Il comune murò tante grotte per evitare che venissero occupate. Una volta abbandonate come case, vennero riutilizzate come cantine, ed è in questo momento che iniziarono a subire ulteriori modifiche strutturali. Già di punico non c'era nulla; in quel preciso momento vennero collegate tra loro o facendo un buco sul pavimento, che risultava il soffitto della tomba che c'era sotto, o buttando giù i tramezzi, facendo dei varchi nelle pareti.

Lei ha avuto modo di conoscere qualche anziano che ha dimorato in queste grotte?
Da bambino, negli anni '70, venivo in bicicletta per vedere gli ultimi "gruttaius" che vivevano qui. Erano tutti scalzi, le donne indossavano le classiche gonne lunghe; vendevano o barattavano tutto quello che la natura poteva offrire in base alle stagioni; intrecciavano foglie di palma nana. Ho conosciuto diverse persone che hanno vissuto qui, le quali hanno avuto la fortuna di costruirsi una casa proprio sopra "sa grutta". Molti ottantenni che oggi vivono qui intorno hanno trascorso in queste grotte i loro primi 20 anni. Negli anni '90 la Cooperativa Archeotur ha curato una pubblicazione intitolata "Is Gruttasa", all'interno della quale sono riportate anche le testimonianze di chi ha vissuto in queste grotte.
Ingresso al Forte Su Pisu
Il Museo etnografico Su magasinu ‘e su binu era un vecchio magazzino settecentesco dove si faceva il vino. Quali sono le principali sezioni che i visitatori possono ammirare?
Il museo etnografico è stato inaugurato nel 1996 ed è entrato subito a far parte del circuito dei siti gestiti da Archeotur. Vi sono esposti gli attrezzi necessari allo svolgimento dei vari mestieri. Della collezione del Museo fanno parte più di 1500 oggetti, la maggior parte dei quali è frutto di libere donazioni da parte della popolazione. Nella parte esterna, chiamata "sa lolla", ovvero cortile porticato, il contadino ricoverava gli animali e sistemava gli attrezzi che utilizzava in campagna. Qui sono esposti gli attrezzi dei mestieri più importanti, quelli usati nelle botteghe artigiane di una volta: attrezzi utilizzati dal falegname, dal calzolaio, dal mastro bottaio, dal fabbro.
Molto interessante è la sezione dedicata alla Pinna Nobilis, comunemente nota come nacchera, il mollusco bivalve più grande di tutto il Mediterraneo. Il mollusco, che si nutre di plancton, al suo interno ha una ghiandola, chiamata appunto ghiandola bissogena, con cui secerne una bava, una secrezione che a contatto con l'acqua salata si solidifica. Nella parte sotto la sabbia vi è una fessura, la secrezione solidificata pian piano fuoriesce per diventare una radice a tutti gli effetti. Il mollusco è radicato al fondo del mare come se fosse un albero. Si fa fatica a pescarlo. Questo mollusco veniva pescato non solo per mangiarne il contenuto, ma anche per utilizzarne la radice, che ha la particolarità di essere elastica per natura. Andava ripulita dalle alghe e dalle incrostazioni calcaree, quindi bisognava eliminare le conchigliette. Si portava a casa, si metteva a bagno in acqua dolce, si eliminava il sale, poi veniva messa ad asciugare e iniziava lo stesso procedimento usato per lavorare la lana di pecora, ossia veniva pettinata, cardata e filata per ottenere un filamento che prende il nome di bisso, chiamato anche seta del mare o oro del mare. Il bisso è stata la seta utilizzata in tutto il bacino del Mediterraneo prima che qualcuno dall'Oriente portasse il baco da seta, che forse fece ingresso in Occidente con gli Arabi durante le incursioni saracene attraverso la Sicilia. Il bisso era la seta dei ricchi; produrlo era faticosissimo. Bisognava pescare migliaia di molluschi per avere pochissimo filato. Questo tipo di lavorazione venne abbandonato quando arrivò la seta prodotta con l'allevamento del baco da seta, l'insetto che si poteva allevare direttamente a casa per ottenere una seta di pregio, ma meno costosa. Già a fine '800 nessuno, nel bacino del Mediterraneo, parlava più di bisso. L’ultima scuola di tessitura della penisola si trovava a Taranto e chiuse definitivamente a cavallo fra il 1800 e il 1900. A Sant'Antioco, però, la memoria è ancora viva grazie a una scuola di tessitura guidata dal maestro Italo Diana, che aveva radunato attorno a sé alcune allieve che sono diventate, poi, quelle mamme e quelle nonne che hanno insegnato a figlie e nipoti come lavorare il bisso. Per questo a San'Antioco, ancora oggi, ci sono alcune persone che lavorano il bisso. Questa scuola ha lavorato il bisso fino al 1939. Il Museo etnografico ospita gli attrezzi di Efisia Murroni, la nostra memoria storica. Efisia ha insegnato a lavorare il bisso alle sorelle Pes, che hanno un laboratorio tessile vicino alla Basilica di Sant'Antioco. In alcune zone il mollusco si è estinto, in altre ha rischiato l'estinzione, per cui oggi è protetto da una legge della Comunità Europea che ne vieta la pesca, la detenzione e la vendita.
Nel museo si possono ammirare anche alcuni manufatti ottenuti intrecciando foglie di palma nana, una specie endemica. Questi manufatti sono stati confezionati dalla povera gente che per 250 anni ha vissuto all'interno delle tombe puniche, al villaggio ipogeo. Per queste persone la vendita o il baratto di questi manufatti, perlopiù scope, borse, cordami, crine per riempire materassi e cuscini, è stata una delle fonti di sostentamento. C'è, poi, un angolo dedicato alle ceramiche riparate da un artigiano di nome "s’acconcia cossiu". Fino a qualche decennio fa, se un tegame o un piatto si rompevano, non si buttavano via, ma si raccoglievano i cocci e si portavano da "s’acconcia cossiu", che fino agli anni '70 percorreva le vie del paese annunciando ad alta voce il suo passaggio. Le massaie gli consegnavano pentole e piatti rotti, lui se li portava a casa e, attraverso un particolare trapano a mano, faceva dei fori nella ceramica o nella terracotta, accostava i pezzi, li bloccava inserendo nei fori una graffetta metallica e sigillava il tutto con malta e cemento e faceva in modo che la casseruola e il tegame potessero essere riutilizzati. Il lavoro doveva essere fatto a opera d'arte.
Molto interessante la sezione casearia, con gli utensili necessari alla raccolta del latte e alla successiva trasformazione in formaggio; da apprezzare la sezione riservata alla panificazione, che viene presentata nelle sue diverse e complesse fasi, ponendo in evidenza la centralità del ruolo della donna nella società agropastorale. Un cenno a parte merita la sezione dedicata al lavoro della vite, con gli attrezzi necessari alla potatura, al trattamento antiparassitario, alla raccolta dell’uva, alle diverse fasi della vinificazione. Giova ricordare che a Sant'Antioco cresce il Carignano del Sulcis, un vitigno autoctono, piantato a piede franco nei terreni sabbiosi dell’isola, e che viene lavorato basso ad alberello per proteggerlo dal vento di maestrale, probabilmente coltivato già al tempo dei Fenici.

Nel 1815 Sant'Antioco venne invasa dai corsari barbareschi, che espugnarono Forte Su Pisu. Cosa sappiamo di quell'evento?
Il forte Su Pisu è un piccolo fortino costruito per difendere il paese dai continui assalti dei corsari tunisini. Vi era un forte simile a questo, costruito alla fine del 1700 all'ingresso del paese, accanto al ponte romano. Quel forte nel giugno del 1812 subì un assalto, venne espugnato e quasi distrutto, quindi la popolazione invocò la costruzione di un altro forte, ma più vicino al paese. Questa era la collina più alta del paese di allora. Nel 1813 hanno iniziato a costruire il forte, sfruttando le pareti di alcuni magazzini edificati sulla collina (che nel tempo, restaurati, sono diventati case di civile abitazione). La costruzione si è protratta nel tempo, per cui, quando c'è stato l'assalto, il 16 ottobre 1815, il fortino, che non era ancora stato terminato (mancava il ponte levatoio), venne preso d’assalto ed espugnato. Il giorno prima dell'assalto la popolazione si accorse che nel golfo di Palmas si era presentata una nave da guerra corsara. Riconosciuta la nave, la popolazione non si era insospettita più di tanto perché il comandante, per trarre in inganno gli abitanti del posto, aveva issato una bandiera inglese. Ai barbareschi interessava fare razzia e fare schiavi. L'unico modo per evitare di essere fatti schiavi era abbandonare la costa e rifugiarsi verso l'entroterra. Con questo stratagemma i barbareschi tranquillizzarono la popolazione. La nave la notte si spostò fuori, lontano dal golfo, richiamò a sé un'altra dozzina di navi che, alle prime luci dell'alba del 16 ottobre, nella spiaggia di Is Pruinis, che dista dal centro abitato circa 4 km, fece sbarcare un esercito di mille corsari tunisini. Le navi nel frattempo si spostarono di fronte al golfo e iniziarono a prendere a cannonate quel che rimaneva del fortino del ponte, detto di “Ponti Mannu”, di modo che l'attenzione di tutti si rivolgesse verso il mare. Alcuni sono riusciti a scappare verso le campagne, altri hanno trovato rifugio nel sottosuolo: grazie alle catacombe in alcuni punti c’è un vero e proprio dedalo.
Una quarantina di persone è arrivata qui nel forte. Tra questi 40, oltre a una dozzina di soldati sardo-piemontesi, c'erano dei miliziani, dei barraceli (una sorta di guardia campestre armata di fucile) e anche dei civili. Anche i pastori e i contadini che rimasero fuori dal forte difesero il paese con i loro fucili da caccia. Uccisero 400 tunisini, ma gli altri 600 saccheggiarono le case, depredarono tutto; quello che non serviva, veniva bruciato. Il paese venne messo a ferro e fuoco. Fecero prigioniere 125 persone. Tentarono l'assalto all'ultimo baluardo, rappresentato da questo fortino che, nonostante avesse un grande punto debole nei magazzini, tuttavia sembrava impenetrabile. Per quattro ore tentarono l'assalto, ma non vi riuscirono. Stavano per desistere, poi, all'improvviso, riuscirono a sfondare la porta del magazzino. Una volta sul tetto, entrarono da una finestrella direttamente dentro il corpo di guardia, altri scavalcarono il parapetto della terrazza. Entrati, uccisero le persone i cui nomi sono elencati nella targa che oggi si trova qui. Alcuni riuscirono a scappare, 8 persone si arresero e vennero fatte prigioniere. Circa 133 persone, alcune fonti parlano di 140-150 persone, vennero stivate come bestie sulle navi. I corsari, poi, continuarono con le loro scorribande, circumnavigarono la Sardegna passando da Cagliari verso la costa est per poi tagliare verso il Lazio e la Toscana. Sbarcarono, saccheggiarono, fecero prigioniere una trentina di persone, per poi atterrare definitivamente a Tunisi il 19 ottobre 1816. Gli schiavi di Sant'Antioco rimasero a Tunisi per circa sei mesi, nel corso dei quali le donne lavorarono come serve nelle case dei ricchi e gli uomini macinavano il grano al posto delle bestie. Questa gente rientrò in patria quando venne pagato il riscatto. Una flotta al comando dell’Ammiraglio Lord Edwards Pellew, visconte di Exmouth, in rappresentanza dell’Inghilterra, del Regno di Sardegna e di quello delle Due Sicilie, salpò verso il Nord Africa con l’ordine di convincere i Bey a restituire gli schiavi e cessare le ostilità. L’ambasciatore riuscì nel suo intento, riscattò gli schiavi dietro pagamento di un riscatto e convinse alcuni Bey a firmare un trattato che garantisse la reciproca libertà di commercio: con Tripoli la presenza dei consoli del Regno Sardo Piemontese e con Tunisi l’autorizzazione alla pesca del corallo.
Vista parziale dell'acropoli di Is Pirixeddus
Dopo 24 anni di chiusura, il 30 luglio 2021 è stata riaperta al pubblico la necropoli di Is Pirixeddus. Gli scavi ivi effettuati ci consentono di ricostruire le dinamiche rituali e sociali dell'epoca? Cosa troviamo nel corredo funerario?
Non lascia indifferenti la sepoltura con l’arcosolio affrescato, proveniente dalla prima tomba esplorata nel 1954. Di cosa si tratta? Chi è il personaggio raffigurato nell'affresco?

La necropoli di Is Pirixeddus fa parte di una vastissima necropoli punica che si estendeva per circa dieci ettari. È oggetto di campagne di scavo da parte della Soprintendenza già dai primi anni Cinquanta del secolo scorso. Sono state scavate più di 50 tombe, tutte ad ipogeo, quindi sotterranee. Si tratta di tombe familiari o di persone appartenenti allo stesso ceto sociale. Le prime tombe sono abbastanza semplici, di forma quadrangolare o trapezoidale; successivamente, quando si ebbe la necessità di ingrandire l'area sepolcrale, i Punici lasciarono sempre un pilastro al centro o un tramezzo con la funzione di sorreggere il soffitto. Dentro ipogei come questo potevano essere sepolte anche 35-38 persone. Essendo tombe familiari, la monumentalità e il corredo funerario dipendevano dal ceto sociale. Molte di queste tombe sono state riutilizzate anche nel periodo romano. Non a caso, la prima parte di necropoli che è stata scavata era stata denominata dagli archeologi "necropolina romana", proprio perché i romani avevano riutilizzato gli ipogei punici e la parte superficiale della necropoli, sistemando le loro sepolture e scavando nel terreno le classiche fosse.
Nei primi anni ‘60 del 1900, gli archeologi fecero una scoperta sensazionale: sul tramezzo che andava a supportare il soffitto di una tomba, i Punici avevano scolpito un altorilievo, una figura maschile e barbata, datata intorno alla fine del VI secolo a.C., che venne allora interpretata come la divinità protettrice dei defunti del sepolcro. Oggi si pensa anche alla rappresentazione simbolica di un membro importante della comunità. Viste le condizioni precarie dell’ipogeo con un vasto crollo del soffitto, la Soprintendenza decise di asportare la statua e trasferirla a Cagliari. La tomba venne poi ricoperta di terra. Attualmente questa tomba è di nuovo in corso di scavo per renderla visitabile. Una scultura simile, datata intorno alla fine del V secolo a.C., è stata rinvenuta negli anni Duemila nella parte più alta della necropoli; è stata denominata, poi, "tomba dell'egizio". La scalinata di accesso all'ipogeo si chiama dròmos, corridoio. Sul soffitto e sulle pareti si notano i segni lasciati dagli scalpellini di allora per scavare l'ipogeo nella roccia tufacea. Chi scavava l'ipogeo apparteneva alla confraternita degli affossatori. Una o due persone, con gli attrezzi di allora, impiegavano circa due mesi per scavare un ipogeo come questo. La stessa confraternita provvedeva a preparare il defunto per la sepoltura. Bisognava seguire un rituale ben preciso: il defunto veniva lavato e profumato con unguenti e oli, poi veniva avvolto in un sudario e adagiato o sopra una barella o dentro un sarcofago. Una volta sepolto, l'ingresso veniva chiuso con una grossa pietra.
Nel corredo funerario era sempre presente una brocchetta con l'orlo a fungo che doveva contenere l'unguento usato durante il rituale dell’unzione prima della sepoltura. Era presente, poi, una brocchetta con l'orlo bilobato che conteneva il vino usato durante il rituale. C'erano tanti lumini per illuminare all'anima del defunto la strada verso il regno dei morti. Al defunto venivano lasciati monili, collane, pietre preziose, metalli che gli erano appartenuti in vita, per questo le tombe quasi subito venivano saccheggiate dai profanatori di tombe che andavano alla ricerca di pietre e matalli preziosi. Spesso, se non trovavano nulla di prezioso, smontavano il sarcofago per recuperare il bronzo dei chiodi e delle maniglie; il bronzo stesso era moneta sonante.
Alcune di queste tombe sono state riutilizzate dai cristiani intorno al IV secolo d.C. come piccolo complesso catacombale. In uno di questi ipogei c'è una particolarità: durante lo scavo del 1954 sono stati rinvenuti i resti di un arcosolio dipinto. Gli arcosoli in molti casi venivano intonacati e affrescati. In questo caso la defunta era stata rappresentata con la sua immagine come dentro una cornice, come se fosse un quadro appeso alla parete.
Una volta che è stato rinvenuto questo arcosolio, nel 1971, la Soprintendenza l'ha ritagliato per poterlo esporre al Museo Nazionale di Cagliari. Quella oggi visibile all'interno della tomba è una riproduzione degli anni '70. La donna rappresentata era di carnagione scura, perché probabilmente di stirpe nordafricana. La defunta indossa una sorta di copricapo rialzato. La figura è attorniata da elementi che richiamano visioni paradisiache: rami fioriti, lunghi steli con boccioli rossi, cesti di fiori e frutta. Il tutto riconduce al Paradiso cristiano. Nella parete erano stati ricavati degli incavi per sigillare la sepoltura.

Sulla cima della collina di Is Pirixeddus sorge l'acropoli. Quando venne scoperta?
L'Acropoli della città di Sulci è stata scoperta per caso nei primi anni ’60, durante la realizzazione di tre palazzine destinate all'edilizia popolare, che dovevano accogliere le famiglie bisognose che vivevano dentro le tombe puniche al villaggio ipogeo: conclusi i lavori del primo caseggiato e iniziati quelli successivi, furono messi in luce i resti di imponenti edifici antichi. Fu così che il cantiere venne spostato altrove e l'unica palazzina costruita divenne il deposito temporaneo dei materiali rinvenuti nelle varie aree archeologiche indagate in quegli anni a Sant’Antioco (Tofet, Necropoli e Acropoli). Grazie all’allora Ispettore della Soprintendenza Ferruccio Barreca, una parte di questi reperti fu esposta alla pubblica fruizione in un piccolo Antiquarium, nucleo fondante del futuro Museo Archeologico.
L'Acropoli sorge sulla cima della collina di Is Pirixeddus, un luogo alto, non lontano dal forte Su Pisu, che dominava sulla città antica di Sulky e sulla laguna. L'area, fortificata dai Punici, è frequentata sin dall'età nuragica. Durante gli scavi sono state rinvenute strutture che rappresentano i resti di un tempio romano risalente al II sec. d.C.
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