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Alessia Pecchioli: l'Incontro. Storia di un'adozione

mercoledì, 16 novembre 2022 10:31

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Una bella immagine di Alessia nella sua Capri
Dal nostro inviato
Francesca Bianchi
FtNews ha intervistato Alessia Pecchioli, autrice del libro L'incontro. Storia di un'adozione (AUGH! Edizioni), un viaggio alla scoperta delle dinamiche che ruotano attorno al mondo dell'adozione. L'incontro racconta una storia dolorosa e ricca di emozioni, una storia vera che coinvolge, appassiona, fa riflettere. Protagoniste del libro sono tre donne che, in momenti diversi delle loro esistenze, hanno dovuto fare i conti con la maternità.
Nel corso della nostra bella conversazione Alessia si è confidata a cuore aperto, consentendoci di entrare nel suo mondo interiore. Nata in Colombia nel 1989 e adottata da piccolina da una famiglia italiana, Alessia ha sempre coltivato il desiderio di conoscere la sua famiglia d'origine. Nel 2019 il suo desiderio è diventato realtà: ha acquistato un biglietto per Bogotà con l'intenzione di andare alla ricerca della madre biologica. Quell'esperienza le ha cambiato la vita: è rimasta in Colombia un anno, nel corso del quale ha avuto modo di conoscere e frequentare la donna che l'ha messa al mondo. Con lei ha instaurato un bel rapporto che continua ancora oggi. La scrittrice ha guardato in faccia le sue paure, in primis quella dell'abbandono, le ha affrontate e combattute con delicatezza e coraggio. Nonostante il dolore, il vuoto, i sensi di colpa, Alessia ha trovato la forza di rialzarsi e condividere la sua storia, nella speranza che possa diffondersi una cultura dell'adozione e vengano meno tutti i pregiudizi su un mondo complesso, di cui spesso non si conoscono i meccanismi.

Alessia, qualche mese fa la casa editrice AUGH! Edizioni ha pubblicato il tuo primo libro, intitolato L'incontro. Storia di un'adozione. Come è nato questo romanzo?
Tutto è nato nel 2020, quando ho ricevuto il Premio Nazionale Letteratura Italiana Contemporanea per la sezione Narrativa Inedita. Decisi di partecipare a quel premio letterario per mettermi in gioco. Durante la pandemia ho avuto molto tempo per lavorare al testo che avevo iniziato a scrivere durante la mia permanenza in Colombia; ho avuto l'occasione di rielaborarlo e riflettere su quanto avevo scritto. Decisi, così, di inviare il manoscritto, però non mi aspettavo di vincere. Quando, poi, un'amica mi ha comunicato che il romanzo era risultato vincitore tra i romanzi inediti, la gioia è stata tanta. Questo premio mi ha motivato, mi ha dato il coraggio di mandare il manoscritto a diverse case editrici indipendenti. Dopo qualche mese mi ha risposto una casa editrice di Viterbo, la AUGH! Edizioni, che fa parte del Gruppo Editoriale Utterson. La redazione si è mostrata molto interessata al mio lavoro. Al Salone Internazionale del Libro di Torino ho avuto modo di incontrarli e conoscerli. Ci siamo rivisti con calma a Viterbo e da lì è iniziato un bel percorso con loro. Sono felice soprattutto del percorso di editing: la persona che ha seguito il mio libro ha lavorato in maniera molto scrupolosa, attenta al singolo dettaglio. Si è creato davvero un bel rapporto.

Poco fa hai affermato che la stesura di quello che sarebbe diventato il tuo libro è iniziata durante la tua permanenza in Colombia. Quando e perché hai deciso di partire? Cosa ti ha spinto a scrivere questo libro?
L'idea di scrivere il libro è maturata durante la mia permanenza a Bogotà. Nel 2019 decisi di partire per la Colombia per andare alla ricerca della mia madre biologica. Dopo averla trovata, iniziai ad avere fortissimi attacchi di panico che non riuscivo a gestire. Ero da sola, lontano da casa, conoscevo poco la lingua, mi mancava l'aria. Iniziai ad annotare sul mio diario tutto quello che mi succedeva, tutte le emozioni che vivevo. Lentamente la scrittura mi ha calmato. Scrivere è sempre stato terapeutico per me. All'inizio scrivevo per sfogarmi, poi ho pensato di raccontare le mie emozioni, ciò che mi aveva spinto a ricercare la mia madre biologica. Solo in un secondo momento ho pensato di scrivere a due voci, raccontando il mio punto di vista e quello della mia madre biologica. Infine mi sono resa conto che nella storia che stavo scrivendo mancava un punto di vista fondamentale, in quanto questa storia riguarda tre persone, non due, quindi ho voluto inserire anche il punto di vista di mia madre adottiva. Lentamente ha preso forma un romanzo breve, una storia totalmente al femminile che parla di adozione secondo tre diversi punti di vista, cercando di andare oltre i soliti pregiudizi sul mondo dell'adozione.

Durante la tua permanenza a Bogotà sei riuscita ad instaurare un rapporto con tua madre biologica? Ora che tipo di relazione avete?
In Colombia sono rimasta un anno intero, anche perché lavoravo lì e non avevo lunghe ferie: sono partita a gennaio e sono tornata a Roma a dicembre. Durante quell'anno ho frequentato per mesi la mia madre biologica. Abbiamo costruito un rapporto partendo da zero, ma non è stato semplice; adesso ci cerchiamo e ci sentiamo spesso. Con lei parlo a cuore aperto, siamo molto simili caratterialmente. Credeva che io fossi tornata definitivamente in Colombia, ha visto il nostro incontro come un ritorno a casa di sua figlia. Quando le ho detto che sarei tornata a Roma, ha sofferto: per lei è stato un altro distacco. Ai miei genitori adottivi ho detto che sarei andata in Colombia per lavorare all'università, il che in parte è vero, ma non ho mai rivelato il mio desiderio più intimo: cercare la mia famiglia d'origine. Ho dovuto gestire anche il rapporto con loro, il che non è stato facile (almeno per quanto mi riguarda). Mia madre ha cercato di comprendermi perché penso abbia capito quanto io avessi bisogno di quell'incontro.
Alessia a Cartagena, in Colombia
Non è un caso che il libro si intitoli L'incontro... Il libro si intitola L'incontro per celebrare l'incontro tra me e la mia madre biologica, ma anche perché, in qualche modo, è l'incontro fra lei e la mia mamma adottiva, fra due paesi e due culture molto diverse, ed è soprattutto l’incontro tra me e la mia madre adottiva, cioè quella che in una sola parola posso chiamare “mamma”.

A proposito di culture diverse, tu dici sempre di non sentirti né italiana né colombiana. Come hai vissuto la tua diversità?
Sì, nella mia vita non mi sono mai sentita del tutto italiana e non mi sono mai sentita del tutto colombiana. Purtroppo questo mi ha fatto sempre sentire diversa: i miei tratti somatici sono sempre stati diversi da quelli degli altri bambini, così come il colore della pelle; da bambina avvertivo molto le forme di razzismo e soffrivo. Quando sono andata in Colombia, finalmente mi sono sentita come tutti gli altri, non sentivo gli sguardi della gente addosso: una sensazione bellissima. Appena parlavo, però, sentivano che non ero come loro, quindi anche lì, ad un certo punto, ho iniziato a sentirmi di nuovo diversa. Ho imparato a convivere con un'identità totalmente frammentata.

Quando hai saputo di essere stata adottata?
L'ho saputo quando ero piccolina: i miei genitori non me l'hanno mai tenuto nascosto. Sia io che mia sorella, colombiana anche lei, siamo cresciute con l'idea di essere state adottate, per cui non c'è stato il trauma di averlo saputo quando ormai eravamo cresciute. Il problema è che i miei hanno sempre sostenuto che, essendo state adottate da piccoline, in noi non poteva esserci alcun trauma: secondo loro eravamo troppo piccole per poter ricordare qualcosa. Invece non c'è niente di più sbagliato. Crescendo con questa idea ripetuta, un bambino si sente strano: se i suoi affetti più cari lo fanno crescere con l'idea che non può esserci un trauma, il bambino pensa di non avere motivo di sentire un vuoto, quindi pensa di essere sbagliato. Si innescano complessi meccanismi psicologici che ti portano ad attribuirti la colpa di tutto.

In famiglia parlavate spesso di adozione?
No. Mia sorella ed io non apparteniamo alla stessa famiglia biologica, siamo state adottate entrambe, ma in famiglia non si è mai parlato d'adozione. Era quasi una normalità che io fossi adottata, quindi anche le mie paure, tra cui quella dell'abbandono, sono state viste come un'esagerazione dalle persone a me più vicine. C'è un abbandono all'origine che non è mai stato riconosciuto. Ho vissuto tutta l'infanzia e l'adolescenza come se l'argomento non ci fosse. Con la mia nonna materna mi confidavo tanto, parlavo molto con lei e spesso abbiamo parlato anche della mia adozione, ma più come racconto del momento che delle emozioni che provavo interiormente.

Quando eri in Colombia, hai detto a tua madre biologica che avresti pubblicato un libro sulla tua vita?
Sì, le ho detto che avrei voluto pubblicare questo libro e lei mi ha chiesto di non inserire le parti più forti che la riguardavano. Io ho rispettato la sua volontà e insieme abbiamo deciso quali episodi inserire e quali scartare. Nel romanzo affronto argomenti delicati, parlo di persone che sono ancora in vita, per cui, per tutelare la loro privacy, ho cambiato i nomi delle protagoniste. La parte che mi riguarda, quella di Alice, è tutta vera, ho inventato pochissime cose. Quanto alla parte del romanzo in cui si parla della mia madre biologica, invece, la selezione è stata molto rigida.

Lei ha letto il libro?
No, non può leggerlo perché non conosce l'italiano. A giugno, quando è venuta in Italia, ha partecipato a due presentazioni che ho organizzato a Roma. Ci teneva molto ad essere presente ad una presentazione del mio libro e una traduttrice ha agevolato il tutto. Si è fermata a Roma una settimana e sono stata felice di mostrarle un poco del mondo in cui sono cresciuta.

L'hai mai chiamata mamma?
No. In Colombia c'è stato un momento di difficoltà nel rapporto ed è stato proprio quando mi ha chiesto di chiamarla mamma. Le ho risposto che non sarebbe stato possibile farlo dopo 33 anni. Lei ha rispettato questa mia scelta. Ti dico che durante quell'anno trascorso in Colombia, a giorni alterni si recava nella casa dove alloggiavo per lasciarmi un pensierino: una mela, un frutto, un peluche. Io lavoravo tutti i giorni all'università di Bogotà, per cui a casa non trovava nessuno, ma lei lasciava tutto al portiere. Mi diceva che erano i regali che non aveva potuto donarmi nel corso della mia vita.
Alessia in uno scatto di Serena Arena
In qualche occasione hai presentato il libro coinvolgendo associazioni che si occupano di adozioni. Com'è stata questa esperienza? Cosa ti hanno chiesto le persone che hanno partecipato?
Sì, ho fatto due presentazioni bellissime, nel corso delle quali ho potuto confrontarmi con coppie che hanno già adottato o sono in procinto di adottare, quindi mi hanno posto domande molto particolari rispetto alle classiche domande di un pubblico più generico. Mi hanno fatto domande più dirette sul mondo dell'adozione, su come possono fare per preservare i loro figli dalla paura dell'abbandono, di cui io ho parlato diffusamente. Mi hanno chiesto in che modo possono aiutare i figli quando questi desiderano andare a conoscere la famiglia biologica. Mi hanno chiesto se l'incontro con mia madre mi sia servito o meno, se ora che finalmente ho trovato mia madre mi senta più tranquilla e sicura. Io ho risposto che ogni storia è diversa: non è detto che si venga accolti sempre a braccia aperte, dall'altra parte potrebbe esserci anche un rifiuto e questa possibilità bisogna prenderla in considerazione. Consiglio sempre di affidarsi ad alcuni enti che sappiano aiutare nella ricerca. Io ho fatto tutto da sola, ma non bisogna agire così. Dopo aver conosciuto mia madre, non si sono risolti magicamente tutti i miei problemi: la paura dell'abbandono c'è sempre, per il semplice fatto che l'abbandono c'è stato e me lo porterò sempre dentro, non si può ignorare. I ragazzi adottati hanno sempre un vuoto. L'adottato, suo malgrado, viene a trovarsi in uno scambio: io a un certo punto mi sono sentita un oggetto, venduto e comprato. Penso sia molto importante farsi aiutare per riconoscere l'abbandono e gestirlo meglio. A me la scrittura ha sempre dato un grande aiuto, mi ha aiutato a reagire. Ognuno trova la propria strada.

Il tuo libro dovrebbe entrare nelle scuole: è importante affrontare temi così attuali con i ragazzi. Tu sei anche un'insegnante: qual è il tuo parere in merito?
Penso sia importante far entrare nelle scuole non tanto il libro in sé come storia mia personale, ma la tematica che affronta, perché c'è tanta ignoranza in merito al mondo dell'adozione. Come insegnante ho avuto studenti adottati. Mi ricordo bene un lavoro anonimo che feci fare nel corso di un laboratorio di scrittura creativa: ne erano scaturiti elaborati molto interessanti, tra cui mi aveva colpito molto la storia di una ragazza adottata, che nel suo testo esternava un grande disagio per il fatto di sentirsi giudicata dai compagni; non si sentiva integrata. Non c'era una reale educazione nella classe sull'argomento. Lei soffriva molto per questa cosa, si sentiva sbagliata e in colpa. Non diceva niente ai suoi genitori perché si vergognava di ciò. Mi sono resa conto, parlando anche con associazioni che si occupano di adozione, che nella scuola dell'infanzia e alla primaria se ne parla, probabilmente perché si affronta tutto ciò che ha a che fare con l'inserimento dei bambini, mentre nelle fasce più grandi, quindi alle scuole medie e alle superiori, l'argomento viene trattato di meno o non viene trattato per niente, probabilmente perché si è convinti che l'inserimento ormai sia già avvenuto da un pezzo. Quello dell'adozione è un tema che deve essere affrontato: nelle scuole non c'è una corretta educazione su cosa sia l'adozione e io l'ho sperimentato in prima persona.
Anche con le mie amicizie più strette, mi è capitato spesso di avere reazioni che possono essere considerate esagerate: a volte sono stata molto male anche solo per un piccolo litigio. Questo mio atteggiamento veniva visto in maniera strana e spesso mi ha creato problemi; io in realtà avevo paura di perdere l'altro.
La scuola può contribuire a sradicare molti pregiudizi. Ad esempio: c’è ancora l’idea che un ragazzo adottato debba avere sempre un forte senso di gratitudine e riconoscenza nei confronti dei propri genitori adottivi, perché l’adozione viene vista purtroppo come un salvataggio, come un’azione generosa e lodevole. Nella mente di un bambino questo significa doversi sentire sempre perfetto per non deluderli mai. Diversamente, ci si sente sbagliati, quindi si creano tutte quelle ansie e angosce che, come nel mio caso, ormai fanno parte di me e molte volte mi hanno portato a pensare di non essere abbastanza. Quante volte mi sono sentita in colpa! Quando non c'è una corretta cultura dell'adozione neppure nel contesto in cui un bambino trascorre la maggior parte del suo tempo, allora lì si contribuisce a creare un grande danno psicologico. Per questo penso sia fondamentale portare nel mondo della scuola un tema come quello che affronto nel libro.

Quale messaggio ti auguri possa arrivare ai lettori del libro L'incontro? Il primo messaggio che mi auguro arrivi è quello della sospensione del giudizio sia su chi adotta che su chi dà in adozione. Nessuno può sapere quali condizioni abbiano spinto una donna a dare sua figlia in adozione. Vorrei anche che venissero meno tanti giudizi superficiali sulla persona che viene data in adozione, che spesso viene vista come una vittima da compatire. Purtroppo i pregiudizi non mancano mai. Vorrei, poi, che i lettori capissero che non c'è una risposta univoca alla domanda su chi sia la mamma vera. Abbiamo a che fare con un mondo talmente pieno di sfumature che nessuno può permettersi di giudicare se non vive un'esperienza del genere. Sì, la mamma è indubbiamente la donna che ti cresce, ma noi non sappiamo nulla della storia dell'altra persona e nessuno può comprendere le emozioni di un figlio che, dopo anni, incontra la donna che l'ha partorito. Dall'esterno non si può a giudicare.
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